«Tutto quello che so, di questo incontro, è che lo ha voluto fortemente papa Benedetto. L’iniziativa l’ha presa lui. Vuole parlarci, vuole ascoltarci. Noi non potevamo mancare», scandisce don Mario Riboldi, prete della Chiesa di Milano. Dire che è l’incaricato diocesano per la pastorale dei nomadi, è dir poco, e dirlo in ecclesialese. Il fatto che abbia questo incarico dal 1971, dà l’idea di una dedizione fedele, evangelicamente ostinata, ad una missione difficile e affascinante. «Sono un prete che si è fatto nomade per portare il Vangelo agli zingari – dice di sé, alla vigilia di questa storica udienza in Vaticano –. È dal 1970 che vivo con loro, viaggio con loro, sto nei loro insediamenti. La mia casa è una roulotte. Ho imparato le loro lingue, la loro cultura. Non per fare il maestro: ma per essere scolaro, con loro, alla scuola della Parola che salva. Per loro ho tradotto il Vangelo di Matteo in cinque lingue. Ero prete da poco quando incrociai un gruppo di sinti. E mi dissi: ma a loro, chi lo porta il Vangelo? Da allora continuo a cercare – con loro – la risposta a quella domanda. Per questo, senza poter diventare zingaro come loro, mi sono fatto nomade: perché gli zingari sono un popolo, una cultura, una storia. Anche se l’evoluzione della civiltà europea sta 'ammazzando' il nomadismo, rende impossibile vivere davvero da zingari: queste comunità si vanno sedentarizzando e smarriscono così le loro peculiarità umane e culturali, la loro identità». Una sedentarizzazione spesso forzata, che non si fa vera integrazione ma deriva di emarginazione, precarietà, discriminazione. Nato a Biassono il 21 gennaio 1929, sacerdote dal 28 giugno 1953, don Riboldi ha iniziato a dedicarsi agli zingari fin dagli anni ’50. Solo nel 1970 la diocesi gli permette di farsi «vagabondo» con loro e fra loro. In mezzo, un lungo 'apprendistato', una prossimità coltivata con pazienza e amore. E una data memorabi-le: il 26 settembre 1965. Paolo VI si reca in visita agli zingari accampati a Pomezia, nel Lazio. Don Riboldi, come oggi da papa Ratzinger, c’era anche allora, da papa Montini. Lo conosceva bene, avendolo avuto arcivescovo a Milano. Ma anche Montini conosce bene il prete ambrosiano, tanto da onorarlo di una citazione – il suo nome, al fianco di altri apostoli dei gitani – nell’omelia della Messa.«Voi nella Chiesa non siete ai margini, siete nel suo cuore, ci disse quel giorno Paolo VI – ricorda don Riboldi –. Quel che disse del cuore della Chiesa, era sicuramente vero per il suo cuore di pastore: lui aveva un affetto profondissimo, un’attrazione autentica per gli zingari. Perché – posso dirlo dopo tanti anni di esperienza – la Chiesa a parole ama gli zingari. E sono parole buone, preziose, in controtendenza, in una realtà che spesso semina parole di paura e ostilità. Poi, però, anche i preti e i fedeli sono uomini del loro tempo, respirano i timori e i pregiudizi degli altri, e non sempre alle parole seguono i fatti. Anch’io, dopo tanti anni, a volte faccio fatica, con i miei zingari. Ma ho anche scoperto la bellezza della loro umanità. E la forza della loro religiosità: hanno un fortissimo senso di Dio, della fede, della vita oltre la morte – lo vedo fra i cristiani come fra i musulmani –. Una religiosità naturale però da 'cristianizzare': con la Parola di Dio, la catechesi, i sacramenti, la preghiera. Con la condivisione della vita, soprattutto. Che chiama me, prete vagabondo, alla conversione. Giorno dopo giorno».