Medio Oriente. Gaza e il «genocidio»: le parole del Papa, la risposta di Israele
Il Papa ieri in San Pietro
E' una parola “caustica” per la pelle di Israele, ancora ferita dal massacro del 7 ottobre. Non solo per le sue implicazioni giuridiche. L’impiego del termine «genocidio» associato al conflitto a Gaza fa male ai discendenti dei superstiti della Shoah, il genocidio per antonomasia, perché la categoria è stata codificata sui contorni dello sterminio nazista.
Papa Francesco lo sa. Per questo, in “La speranza non delude mai” (Piemme), ha affrontato la questione con estrema delicatezza: «A detta di alcuni esperti, ciò che sta accadendo a Gaza ha le caratteristiche di un genocidio. Bisognerebbe indagare con attenzione per determinare se s’inquadra nella definizione tecnica formulata da giuristi e organismi internazionali».
L’affermazione si inserisce in un quadro complesso e articolato. In oltre tredici mesi di guerra, lo spettro del genocidio è aleggiato più volte su Tel Aviv. Non sono solo i palestinesi a scagliarlo con forza sull’altra parte. L’accusa è stata mossa da varie parti. Alcune, di certo, interessate. È innegabile, però, che vari esperti internazionali sostengano la legittimità dell’impiego di tale categoria sulla quale il Sudafrica ha avviato una causa, tuttora in corso, alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja. I pareri favorevoli sono diventati più numerosi dall’ennesima operazione sul nord della Striscia. A supportarli, in modo indiretto, le affermazioni dei vertici militari – ribadite da ultimo dall’ormai ex ministro della Difesa, Yoav Gallant – secondo cui ormai gli obiettivi sono stati raggiunti: è, dunque, inutile proseguire i combattimenti. Nonché il sospetto che il governo di Benjamin Netanyahu stia applicando a nord del corridoio di Netzarim il cosiddetto “piano dei generali” che prevede di affamare i civili per costringerli a sfollare, lasciando l’area libera per la creazione di una sorta di cuscinetto.
La settimana scorsa, il Comitato speciale dell’Onu ha sostenuto che i metodi impiegati da Tel Aviv «hanno le caratteristiche di un genocidio». Di fronte all’entità del massacro nella Striscia – documentato dalle organizzazioni umanitarie –, dal persistente blocco degli aiuti umanitari, stigmatizzato dagli stessi Usa, della crescente pressione dell’ultradestra per nuovi insediamenti nell’enclave, il Papa non ha preso posizione netta poiché non è il suo compito, ma ha suggerito la necessità di un’inchiesta approfondita. Solo quest’ultima può stabilire la verità giuridica, fugando dubbi e evitando manipolazioni politiche. Eppure Israele ha respinto con veemenza l’idea. Quella di Tel Aviv è autodifesa di fronte al «massacro genocida» del 7 ottobre, ha scritto l’ambasciata presso la Santa Sede su X. Chiamarla con altro nome – conclude il messaggio – «significa isolare lo Stato ebraico».
Affermazione quest’ultima difficilmente applicabile alle intenzioni del Papa, i cui gesti e parole nei confronti «dei fratelli e delle sorelle ebrei» sono carichi di indubbio affetto, da ben prima di essere eletto come successore di Pietro. È sufficiente ricordare l’inequivocabile condanna dell’antisemitismo nella lettera del 3 febbraio scorso, definito «un peccato contro Dio». E i vari incontri con i familiari degli ostaggi prigionieri di Hamas a Gaza. Nell’ultimo, sabato, Francesco ha ribadito la propria preghiera costante per i rapiti. Impossibile dimenticare quell’«Adamo dove sei?», pronunciato al Memoriale dello Yad Vashem di Gerusalemme, il 26 maggio 2014. E, soprattutto, le due ore di pellegrinaggio silenzioso ad Auschwitz, durante la Gmg del 2016.
L’immagine del Papa in muto raccoglimento di fronte al muro ancora insanguinato dove avvenivano le esecuzioni esprime, con potenza straordinaria, il suo pensiero sulla violenza che gli esseri umani, di qualunque etnia, fede, appartenenza politica, sono capaci di infliggersi gli uni gli altri. Di quel momento resta solo una frase, scritta da Francesco sul Libro d’onore: «Signore abbi pietà del tuo popolo. Signore, perdono per tanta crudeltà!».