Convegno ecclesiale Firenze 2015. «Il nuovo umanesimo ci vuole missionari»
Il testo di monsignor Nunzio Galantino che pubblichiamo è tratto dal discorso «Un nuovo slancio missionario, a partire dal Convegno di Firenze» pronunciato dal segretario generale della Cei in San Pietro in Vincoli a Ravenna il 28 gennaio di quest’anno. La versione integrale dell’intervento fa parte di una raccolta di discorsi di monsignor Galantino che l’Editrice Ave ha raccolto nel volume «Beati quelli che non si accontentano» (196 pagine, 15 euro).
Il nuovo umanesimo che cerchiamo non si trova in un libro; non aspettiamo che un autore ci fornisca, con una pubblicazione, una visione antropologica innovativa e adeguata al nostro tempo, peraltro in perpetua e rapida trasformazione. Vivremo e contribuiremo a diffondere un nuovo umanesimo camminando insieme alle persone, a contatto con la storia e nel riferimento costante alla persona e all'esempio di Cristo. È questa la strada che ci permette di contribuire a costruire un’umanità nuova, che riconosca e sposi la logica delle Beatitudini, facendo della ricerca della santità la via per la felicità. Il nostro compito, quindi, come battezzati e ancor più come ministri, è quello di guardare a Gesù e di indicarlo, di conoscerlo noi per primi e di farlo conoscere. E per fare questo si tratta – riprendendo le cinque vie indicateci dal Convegno ecclesiale nazionale di Firenze 2015 – di uscire, non solo verso ogni periferia geografica ed esistenziale, ma di uscire, come Chiesa, dalla retorica, dai luoghi comuni e dal politicamente corretto; di annunciare che l’uomo non è solo ma è oggetto di un disegno di grazia, fatto di attenzione concreta e di compagnia sperimentata; di abitare il nostro mondo, assumendone le sfide; di educare i fratelli a vivere secondo la logica del Vangelo; di trasfigurare le relazioni e gli ambienti di vita mediante la pratica della misericordia, che sola – ci insegna l’Anno Santo della Misericordia – dà senso e pienezza alla vita umana.
Questo slancio, che sempre ci deve sospingere e quasi incalzare, è costantemente ravvivato dalle parole del Papa che, sulla scia di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, non si stanca di spronarci a una nuova stagione missionaria. Lo ha fatto anche a Firenze, in cattedrale, rivolgendosi ai delegati e, attraverso di loro, a tutta la Chiesa italiana. È stato un messaggio estremamente appassionato, concreto, senza giri di parole. In esso Francesco ci ha messo in guardia da una duplice tentazione: da una parte quella pelagiana, dall'altra quella gnostica: sono due eresie ormai vinte, a livello dogmatico, ma tuttora insidiose a livello pratico, perché le intuizioni e la sensibilità che le hanno animate possono ancora toccarci e contaminare il nostro cammino ecclesiale. L a tentazione pelagiana. Per Pelagio, l’uomo è capace, da solo, di compiere il bene; è solo una questione di volontà e di impegno cosicché, se egli davvero lo desidera e agisce con rigore e costanza, riesce a santificarsi e a raggiungere la salvezza. La grazia di Dio sostiene e rafforza il suo cammino di santificazione, ma non gli è necessaria in senso assoluto.
Questa impostazione, che solo apparentemente nobilita l’uomo e che è stata avversata fin dal suo esordio da sant’Agostino, conduce a un atteggiamento rigorista, tipico di chi pretende di raggiungere la santità per suo solo merito, e a un irrigidimento della vita ecclesiale, nella quale si fanno posto l’orgoglio e il giudizio. È così che il pelagianesimo, «con l’apparenza di un bene, spinge la Chiesa a non essere umile, disinteressata e beata», cioè a non vivere secondo lo stile che Gesù ha vissuto e insegnato. «Il pelagianesimo – continua Francesco – ci porta ad avere fiducia nelle strutture, nelle organizzazioni, nelle pianificazioni perfette perché astratte» o, ancora, «ad assumere uno stile di controllo, di durezza, di normatività ». Quello descritto qui è un modo di vivere il rapporto con Dio e con gli altri del tutto simile a quello dei farisei, criticati da Gesù. Anche noi, come loro, sulla scorta di un’impostazione pelagiana, potremmo dare troppo valore alle strutture, a scapito delle persone; alle apparenze e a pratiche precostituite, a scapito della fedeltà a Dio e ai fratelli; potremmo diventare severi e poco indulgenti, nella pretesa che il nostro gregge ci segua dove lo vogliamo condurre; e incapaci di rinnovarci, come chi debba conservare tradizioni, più che perseguire una conversione, che mai può dirsi conclusa.
Il Papa ci svela il suo sogno di una Chiesa umile e giovane, capace di rinnovarsi e di cercare continuamente il modo migliore, e più adatto ai nostri tempi, per portare il Vangelo e creare ponti di fraternità. Lo ha affermato egli stesso, a Firenze: «La Chiesa italiana si lasci portare dal suo soffio potente e per questo, a volte, inquietante. Assuma sempre lo spirito dei suoi grandi esploratori, che sulle navi sono stati appassionati della navigazione in mare aperto e non spaventati dalle frontiere e dalle tempeste. Sia una Chiesa libera e aperta alle sfide del presente, mai in difensiva per timore di perdere qualcosa». Ascoltando questo richiamo a non sentirci mai arrivati, a non cedere alla tentazione di conservare l’esistente, senza innovare, ci dobbiamo seriamente interrogare: la nostra Chiesa sa fare questo? Nelle nostre diocesi, sappiamo mettere in pratica questo stile di continua ricerca, di ascolto e di costante discernimento? E ancora: le comunità nelle quali operiamo sanno tenersi lontane da queste forme di pelagianesimo? Ci dobbiamo riflettere con sincerità e senza inutili giudizi, ma con spirito di carità e col desiderio di rispondere meglio alla nostra vocazione. Questa revisione di vita, da compiere a livello individuale e comunitario, richiede coraggio, ma è assolutamente necessaria.
Potrebbe anche esigere da noi cambiamenti profondi e radicali, anzi certamente lo fa! Potrebbe chiederci – e di certo lo fa – di rivedere il modo di concepire la nostra azione pastorale, da dilatare ben oltre i confini della parrocchia, dentro i quali spesso rimane rinchiusa. Potrebbe comportare una riduzione degli impegni esistenti, per dedicare più tempo ad altro, più tempo ai lontani e all'attività, tipica del pastore, di ricerca della pecora smarrita, che è rimasta lontana, sul monte.
La tentazione gnostica. Una seconda tentazione da sconfiggere è quella dello gnosticismo. Quella gnostica non è una teoria ben definita; si tratta piuttosto di una galassia di tesi e pensieri sulla divinità e sulla via per ritornare al divino. Pur nella varietà delle teorie, lo gnosticismo presenta alcuni caratteri di base: la sfiducia nell'umano e nel carnale; la conoscenza quale via maestra per la salvezza; la tendenza a una chiusura individualistica. Lo gnosticismo, i cui effetti anche oggi ci possono far deviare dalla via del Vangelo, «porta – nota il Papa – a confidare nel ragionamento logico e chiaro, il quale però perde la tenerezza della carne del fratello». Il suo fascino, quindi, è quello di «una fede rinchiusa nel soggettivismo, dove interessa unicamente una determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene possano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi sen- timenti». Il soggettivismo, che qui il Papa addita come terribile insidia alla fede cristiana e come deviazione dalla logica del Vangelo, può portarci ancora oggi a non accostarci all’altro e alla concretezza della sua vita e dei suoi problemi, per tenerci lontani da lui o presentargli un annuncio di salvezza disincarnato, astratto, fondato su un rapporto intimo con Dio, ma non mediato dal legame fraterno. Non va ignorato il fascino che questo modo di pensare, di essere e di fare esercita ai nostri giorni. (...)
Anche in questo caso ci chiediamo dove, nelle nostre comunità e nella nostra Chiesa, siano presenti queste dinamiche e in quali ambiti questa mentalità, con la prassi che genera, domini le relazioni fra le persone e le iniziative che proponiamo o sosteniamo. Sarà necessario, ancora una volta, metterci in discussione, senza timore o spirito di autodifesa, per lasciarci giudicare e correggere. Senza un autentico progetto di verifica e discernimento, personale e comunitario, la vitalità della Chiesa si spegne e la bellezza del suo messaggio si affievolisce, rimanendo nascosta. È proprio quanto ci ha chiesto Francesco in occasione del Convegno, raccomandandoci di alimentare «in maniera speciale la capacità di dialogo e di incontro ». Questo atteggiamento corrisponde all’apertura, che deve caratterizzare la missione. Infatti, quando il Papa parla di una Chiesa più missionaria e aperta intende certo dire che essa deve andare verso le persone, travalicando i confini dei propri luoghi tradizionali, per portare il Vangelo. L’evangelizzazione, però, implica un coinvolgimento dello stesso annunciatore il quale, nel portare il messaggio di salvezza, non rimane mai uguale a come era, ma si mette in gioco, senza pretendere di possedere in toto la verità, della quale sempre è servitore e “cercatore”. Andando verso i “lontani”, la Chiesa si mette in discussione, rivede le sue strutture, ripensa i suoi linguaggi, si pone in dialogo e capisce cose nuove, di sé e del mondo. Questa ricchezza, racchiusa in ogni realtà e in ogni individuo alla quale è mandata, non va sprecata, facendole schermo con la propria presunta autosufficienza. I preti più giovani siano più capaci, proprio in virtù della loro età, di vivere e sollecitare questo spirito di ascolto e di costante verifica. Dal contatto vivo con il mondo possiamo imparare molte cose, e con esso dobbiamo porci in un’attiva collaborazione. Questo stile di dialogo e confronto con il mondo sarà possibile a partire da un allenamento costante alla sinodalità nella vita ecclesiale e pastorale. Quando questo manca si fa fatica a capire e ad accettare la forza e l’immediatezza di un passaggio del Discorso del Papa a Firenze: «Vi raccomando anche, in maniera speciale, la capacità di dialogo e di incontro. Dialogare non è negoziare. Negoziare è cercare di ricavare la propria “fetta” della torta comune. Non è questo che intendo. Ma è cercare il bene comune per tutti. Discutere insieme, oserei dire arrabbiarsi insieme, pensare alle soluzioni migliori per tutti. Molte volte l’incontro si trova coinvolto nel conflitto. Nel dialogo si dà il conflitto: è logico e prevedibile che sia così. E non dobbiamo temerlo né ignorarlo ma accettarlo. «Accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo» ( Evangelii gaudium, n.227).
Nell'esercizio del nostro ministero, dobbiamo ricordare che il fine dell’azione pastorale non è la realizzazione di iniziative o servizi, in funzione dei quali reperire fondi e collaboratori. «Il primo compito del vescovo non è fare piani pastorali... ma è pregare. E il secondo compito è essere testimone, cioè predicare: predicare la salvezza che il Signore Gesù ci ha portato»: lo ricordava papa Francesco in un’omelia a Santa Marta (22 gennaio 2016), dove aggiungeva che se il vescovo – ma vale per tutti noi – «non prega o prega poco, si dimentica di pregare o non annuncia il Vangelo, si occupa di altre cose, la Chiesa si indebolisce; soffre. Il popolo di Dio soffre». Il nostro compito è quello di educare le persone secondo il Vangelo, facendo emergere il meglio da ognuno e mettendo ognuno in grado di essere parte attiva, impiegando i suoi talenti. Questo vale in particolare per le famiglie, la cui soggettività e partecipazione all'evangelizzazione il Papa e il Sinodo hanno più volte richiamato; ciò vale anche per i poveri, che dobbiamo servire e che siamo chiamati a coinvolgere, in modo che la mano che tendiamo loro non serva solo a porgere un aiuto, ma a stringere un legame, a chiedere un punto di vista e un contributo personale, nella misura della capacità di ognuno. Solo accogliendo questa sfida sarà veramente messa a frutto la pluralità dei doni, che lo Spirito semina con abbondanza e dove vuole.