Padre Gheddo. Il mio direttore «esclamativo», prete felice
Padre Gheddo a colloquio con alcuni combattenti pakistani nel campo profughi di Jalozai nel Pakistan occidentale dove l'Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati accoglie chi è in fuga dai combattimenti nel nord-ovest della Regione. (Foto d'archivio Pime)
La cosa più ardua da far intendere a chi lo conoscesse soltanto attraverso i suoi libri, o tramite alcuni memorabili reportage di contro-informazione sul Terzo Mondo, era che dietro la firma prolifica e pugnace di Piero Gheddo non c’era affatto un ideologico controversista professionale, un apologeta cattolico per partito preso, o magari un feroce conservatore pronto a tutte le battaglie di penna, bensì il sorriso sempre accogliente di un prete col golfino blu e una fede schietta.
Pur essendo stato uno dei giornalisti italiani più coraggiosi nelle denunce dei soprusi grandi e piccoli delle dittature e dei totalitarismi (non solo “rossi”) che hanno oppresso i popoli nel “secolo breve”, nonché uno tra i primi e più acuti intellettuali a studiare l’evoluzione dei Paesi in via di sviluppo subito dopo la fine del colonialismo, padre Gheddo era rimasto anzitutto il Pierino mite, umano, profondamente credente, puro che – a 11 anni – aveva salutato per mai più rivederlo il papà andato capitano in Russia per punizione fascista, nonostante fosse vedovo e con tre figli a carico.
Piero a 88 anni si commuoveva ancora a ricordarlo, perché gli erano rimasti gli stessi occhi limpidi di allora. Quelli con cui ha potuto osservare da vicinissimo tante guerre e troppe ingiustizie del mondo povero (il Vietnam, la Cambogia, il Sahel, l’India, i boat people, l’Etiopia, le carestie e le rivoluzioni, gli esodi e le disuguaglianze...) e le ha gridate in Occidente con tutta la sua convinzione di missionario giornalista, anche a costo di trovarsi solo contro la corrente del mainstream ideologico.
E se, nel fuoco delle polemiche, è apparso talvolta come un “avversario” anche ad alcuni settori cattolici, non era perché avesse una parte politica da difendere a priori o volesse imporre chissà quale verità precostituita: lui semplicemente raccontava ciò che sul posto aveva visto, ascoltato, capito. E la fede: tutt’altro che ultima, anzi essenziale nella sua personalità. Infatti l’inviato speciale padre Gheddo, che anche grazie alle sue presenze radiotelevisive era indicato spesso come il missionario più famoso d’Italia, ha sempre considerato la sua indubbia vocazione giornalistica e di scrittore (quasi 100 libri all’attivo) anzitutto un servizio umile e scrupoloso alla Chiesa: quella rappresentata dai suoi confratelli del Pime e da tanti altri religiosi italiani attivi nel Terzo Mondo, quella delle giovani comunità cristiane nelle nazioni più incredibili, i cui timbri andava collezionando sul passaporto in viaggi estenuanti e compiuti sempre per raccogliere il più possibile la voce di chi – da noi – nessuno altrimenti avrebbe mai potuto udire.
Quando mi accolse giovane redattore nella sua prestigiosa rivista Mondo e Missione, mi permettevo addirittura di cancellargli i punti esclamativi: ne infilava un po’ troppi, a mio giudizio, alla fine dei capoversi infaticabilmente dattiloscritti... Avrei capito solo più tardi che non di enfasi retorica si trattava, ma del gioioso piacere di comunicare agli altri ciò che per lui appariva di evidenza assoluta: vivere avendo per missione il Vangelo è un’avventura che val la pena. E ciò non per faciloneria semplicistica: nonostante alcuni triboli celati sotto il sorriso – a partire da certe “obbedienze” immeritate, cui si era virtuosamente adattato, fino agli ultimi mesi di malattia –, non ha mai perduto, padre Gheddo, l’entusiasmo di proclamarsi uomo felice. E questa, insieme ai suoi innumerevoli scritti, è l’eredità cristallina che lascia a noi amici e ai tanti lettori.