Paolo VI, 43 anni dalla morte. Il giovane Montini si racconta / TESTO INEDITO
Papa Paolo VI esce in processione dalla Cappella Sistina nel giorno di inizio del suo pontificato, Città del Vaticano, 21 giugno 1963
Mentre a Concesio, il paese natale nel bresciano, fervono i preparativi per la consueta settimana montiniana di settembre, anche quest’anno il «dies natalis» di Paolo VI, viene ricordato al Sacro Monte di Varese. Là dove una grande statua bronzea continua a parlarci di lui chino quasi ad abbracciare i pellegrini in cima alla strada delle cappelle: il monumento - voluto dall’arcivescovo Pasquale Macchi e realizzato da Floriano Bodini - che di san Paolo VI palesa la potente concezione della fede, fondamento di tutta la biografia, sino al materializzarsi - per lui - del pensiero alla morte. L’appuntamento è per oggi alle 16,45 nel Santuario di Santa Maria del Monte, dove monsignor Ettore Malnati - varesino di Bregazzana, ma da mezzo secolo a Trieste, dove oggi è vicario episcopale per il laicato e la cultura, autore di diversi libri su Montini e il Vaticano II - presiederà la Messa. Sarà l’occasione per rinnovare gratitudine al pontefice bresciano nel 43° anniversario della morte (era il 6 agosto 1978). E ancora una volta sarà richiamata - in questo luogo a lui così familiare - anche la figura di monsignor Pasquale Macchi che dell’arcivescovo Montini, poi Paolo VI, fu a lungo segretario particolare, ma ancor prima discepolo.
Dal “cantiere” dell’Istituto Paolo VI continuano ad uscire con regolarità edizioni degli scritti di Giovanni Battista Montini, di cui oggi ricorre il 43° anniversario dalla morte a Castel Gandolfo dopo 15 anni di pontificato. Sono due i volumi apparsi in libreria negli ultimi mesi.
Il primo dal titolo Pensieri giovanili (pp. 144, euro 18, Studium), è curato dallo stesso presidente del Centro internazionale di studi e documentazione che ha sede a Concesio - il teologo don Angelo Maffeis - e presenta un ritratto quasi intimo del futuro Pontefice, così come si specchia in un taccuino tenuto a partire dal settembre 1919, nei mesi precedenti l’ordinazione sacerdotale (29 maggio 1920), quindi negli anni 1920- 921, quelli che vedono il trasferimento da Brescia nella capitale, presso il Collegio Lombardo, poi l’avvio degli studi alla Pontificia Università Gregoriana e alla Sapienza, fino alla sua chiamata alla Pontificia Accademia dei Nobili Ecclesiastici.
Le annotazioni, in larga parte edite per la prima volta, si rivelano interessanti almeno sotto due aspetti. Quello storico perché aiutano la comprensione dell’ambiente della formazione, familiare ed ecclesiale, ma pure culturale e sociale. Quello spirituale perché consentono di cogliere l’intensità e la coerenza delle riflessioni che segnano le tappe di crescita personale di «don gibiemme» - che qui si firma spesso con la sigla «DB» - lungo il suo singolare percorso educativo. Riflessioni sulle virtù cristiane, il ministero pastorale, la bellezza della vita (si veda l’inedito sulla gioia in questa pagina scritto da chi con altro vello firmerà l’Esortazione apostolica Gaudete in Domino). Testi dove - spiega don Maffeis - lo sguardo introspettivo si sforza di illuminare l’interiorità con la Scrittura, valorizzando non solo l’eredità dei maestri e dei testimoni, ma pure gli squarci che arte e filosofia possono aprire sul mistero di Dio.
Il secondo tomo del volume Carteggio II (a cura di Xenio Toscani, Cesare Repossi, Maria Pia Sacchi, con la collaborazione di Caterina Vianelli, Giovanna Fiorani, Chiara Montini, Lino Albertelli, pp. 1.126, euro 100, Istituto Paolo VI-Studium), tomo dedicato alle lettere del biennio 1926-1927, fa avanzare ancora l’arco cronologico dell’epistolario montiniano. Dopo aver presentato la corrispondenza circa gli anni 1914-1923 (i due tomi del primo volume sulla formazione liceale e seminaristica e gli studi a Roma) e quella del biennio 1924-1925 (primo tomo del secondo volume sul periodo dell’assistenza al circolo fucino romano), la nuova opera documenta ciò che nella visione dell’assistente ecclesiastico generale doveva costituire l’autentico impegno fucino.
Larghissima parte delle missive - ricorrenti gli scambi con i fratelli Henri e Jean-Louis Ferrero, i monsignori Giandomenico Pini, Federico Sargolini, Luigi Piastrelli, Mariano Rampolla del Tindaro, Carmelo Scalia, don Geremia Pacchiani, i fucini Giovanni Battista Falchi, Renzo Enrico De Sanctis, l’amico Andrea Trebeschi, oltre che i familiari - verte infatti sull’attività e lo spirito associativo, la responsabilizzazione, gli indirizzi educativi, le iniziative dei circoli, le relazioni, i convegni, la stampa, ma pure le pratiche imprescindibili della preghiera, della carità, dello studio, ecc., riguardanti sia gli studenti sia gli assistenti ecclesiastici.
Ma non mancano riflessioni più dilatate alla vita della Chiesa che «ha bisogno della fedeltà dei suoi figli», e inviti agli interlocutori alla consapevolezza di un fatto «che per Cristo si agisce e che Lui tutto raccoglie, osserva, perfeziona, perdona e premia», come scrive il 15 dicembre ’27 in una lettera al bresciano Ottorino Marcolini, dei Padri della Pace. L’epistolario è anche un documento della temperie che la Fuci è costretta a respirare in questi anni. Nel moltiplicarsi delle violenze fasciste contro circoli e dirigenti fucini (si vedano le lettere che riferiscono sul drammatico congresso dell’agosto ’26, per la Fuci «il battesimo di sangue di Macerata», come lo chiama qui monsignor Luciano Luciani in una lettera a Montini).
E nel persistere di pesanti incomprensioni e coni d’ombra anche in campo cattolico; dove non mancano camerati chierici e religiosi filofascisti, e persino dirigenti nazionali di Azione Cattolica e alti prelati della curia romana sempre pronti a «trovare le ragioni per dar torto a chi è bastonato», poco a disposti a difendere la Fuci dalle aggressioni del regime chiaramente intenzionato - scrive don Battista a «colpirla a morte».
Dagli scritti giovanili un brano inedito: "La gioia dell'essere"
Giovanni Battista Montini
Stamane svegliandomi la prima cosa che m’ha colpito, prima ancora che fossi desto del tutto fu la gioia di essere. - Com’è bello vivere, vedere, per poter vivere e lodare Iddio. Il mistero del vedere! Ecco che il vedere è un leggere dappertutto scritto in tutte le cose e da tutte le stesse cose il nome di Dio. Vedere e saper di vedere e sentir di vedere, ecco una felicità misteriosa che non può essere compresa senza applicarla alla sorgente stessa dell’essere, Iddio. Donde la gioia di esistere per Lui, d’essere buoni come Lui per Lui. E ho letto quest’oggi di Leopardi per cui felicità è illusione, e la realtà, la natura e la vita un’amarezza, una tortura, una cieca schiavitù.
E se anche si potesse ammettere in lui che tale filosofia non fosse la rifrazione della natura attraverso il prisma guasto del guasto suo corpo, ma fosse una convinzione pienamente scientifica, mi passò, oggi, nello spirito l’evidenza che la vita umana è tutto ciò che si vuole di brutto, e di duro è l’inesplicabile, quando non la spieghi in Dio e per Dio. Il Leopardi non si pone solo il problema del dolore, ma anche quello della vita: non riuscendo a spiegare il primo, egli ne fa un capriccioso postulato, un’ipotesi, con cui spiega poi il problema della vita. Tanto se avesse spiegato l’uno o l’altro di questi con Dio, coll’ipotesi di Dio, avrebbe trovato meno funerea l’esistenza e ne avrebbe compreso tutto il quadro meraviglioso. Compreso il quadro, è segno che l’ipotesi è vera.
E allora il cuore umano scoppia, scoppia dinanzi alla verità, alla realtà, all’essere, a ogni più piccola cosa, pensando a sè, pensando al mondo, agli altri, all’infinito. E invece egli non vide che domande e non sapendone la risposta, le pensò illusioni, e cercando la luce non ne volle che la brama, e odiando la sofferenza la idolatrò, bramando la bellezza e la vita tutto chiamò deforme e morto. Francamente sono felice d’essere piccolo, ma di vedere, e di veder di vedere e di voler vedere per Iddio. Lui vedrò domani, Lui stesso.