Chiesa

Trento. Il don e i malati di Huntington: «Vogliamo essere riconosciuti»

Diego Andreatta mercoledì 27 gennaio 2021

Don Marco Salvadori che a 10 anni ha perso la madre per il morbo - salutato dal Papa

«Gli altri ragazzi, che come me sono figli di un malato di Huntington, mi sentono uno di loro. Anzi, uno di Noi». Sorride don Marco Salvadori, 31 anni, perché “NOI Huntington” è anche il nome dell’associazione nazionale che il prete toscano ha fondato tre anni fa insieme ad altri 15 giovani come rete di sostegno per gli under 35 che devono convivere nelle loro case con una delle malattie rare neurodegenerative meno conosciute e più emarginanti.

Viceparroco a Scandicci, don Marco conclude oggi il Master in Gestione di Imprese Sociali organizzato da Euricse a Trento, un diploma con cui ha voluto qualificare il servizio di presidente dell’associazione: «Anche per la mia vicenda personale – osserva – lo sento come una missione, integrata nel mio ministero. Il morbo studiato dal dottor Huntington è sempre stato segnato da uno stigma sociale e produce delle periferie esistenziali». Basti dire che nel medioevo le malate erano viste come streghe, sotto il nazismo finivano nei lager o nei manicomi… ma ancora oggi i familiari si sentono e sono incompresi.

Di che cosa avete bisogno, don Marco? «Di essere riconosciuti, innanzitutto. La “Corea di Huntington” presenta una grande varietà di sintomi e comportamenti spesso considerati strani: dal movimento incontrollato e involontario (corea significa danza, ndr) alla perdita di autonomia fisica e cognitiva con diversi disturbi della personalità, ad esempio scatti di ira». I figli dei malati - una quarantina finora gli iscritti a “NOI” - provano ogni giorno quanto sia difficile l’accettazione della malattia e la relazione con genitori o fratelli. «Viviamo anche con il punto interrogativo del rischio genetico – aggiunge don Marco – al 50 per cento è possibile avere il gene che determina la neurodegenerazione; è avvenuto a me che, come altri ragazzi, ho ereditato questo gene da mia madre».

Quando è morta mamma Marcella, Marco aveva solo dieci anni. Non l’ha mai vista sana, ma ricorda bene l’aiuto che le poteva dare sostenendola negli spostamenti o imboccandola con gli omogeneizzati. Ricorda soprattutto la non accettazione della malattia da parte della nonna paterna: «Chiamava mia madre “la malata” davanti a me e a mia sorella – esemplifica dolorosamente don Marco – e quindi da ragazzi abbiamo vissuto sulla nostra pelle insieme a papà cosa significa esse- re giudicati male per una cosa di cui non si è responsabili». Dietro la mascherina che copre la sua barba giovanile e fa risaltare gli occhi vivaci, don Salvadori si dimostra entusiasta dell’anno di formazione «intensa e bellissima», frequentato a Trento: «Il Master, molto ben curato da Euricse e dai docenti dell’Università di Trento – spiega – mi ha dato la possibilità di approfondire quelle competenze specifiche di cui avvertivo il bisogno per far crescere l’associazione. Così i cinque mesi di stage sul campo full time a Roma presso la Lega Italiana per la ricerca su Huntington mi hanno portato a rafforzare il rapporto con la nostra associazione di familiari e anche con la rete giovanile europea dei malati».

Lei veniva da studi di teologia e filosofia. Dalla teoria e dalla pratica sociale che cosa ha imparato? Due idee forti? «L’attenzione a tutti i cosiddetti stakeholder, cioè quanti possono essere interessati alle finalità dell’associazione, da tutti i familiari agli enti pubblici o privati. Seconda cosa: l’importanza del lavoro di squadra, sperimentato nel Master a Trento. Vale anche per noi preti che talvolta rischiamo di fare da soli, da individualisti, senza delegare agli altri. Invece, saper valorizzare le differenze e le abilità specifiche è un grande valore aggiunto, non solo nel sociale, anche nella pastorale».

A proposito, ha dovuto convincere i superiori per il master? «No, mi sono sentito incoraggiato dalla Chiesa di Firenze, sia dai vertici diocesani che dalla comunità di Casellina dove sono vice parroco. Hanno compreso che non era un capriccio ma una scelta di servizio reciproco ai giovani che come me hanno familiarità con la malattia. Devo ringraziare anche l’abate di San Miniato al Monte, padre Bernardo Gianni, un vero fratello, che ci supporta come guida spirituale ma anche operativa in alcuni eventi».


Una volta terminato il master in gestione di imprese sociali che metterà a servizio dell’associazione

Nel settembre 2019 anche la benedizione di papa Francesco in un breve incontro sul sagrato di piazza San Pietro: «È stato dolcissimo. Ci ha fatto toccare con mano quella fraternità di cui parla spesso. Ci ha incoraggiato, dimostrando di conoscere il mondo Huntington». A sostenere don Marco e gli amici di 'NOI' (per altre informazioni www.noihuntington.it) , le prospettive di speranza aperte dalla ricerca scientifica per riuscire a offrire una cura ben diversa da vent’anni fa.

E il pensiero torna a mamma Marcella. «Nonostante il rapido e forte declino cognitivo e motorio, la ricordo per la sua dolcezza incredibile: mi fece il regalo più grande della mia vita, quello che nessuno mi ha mai fatto ». Quale? «Mi chiamava “mio bijoux jolie”, che in francese significa piccolo pezzo di bigiotteria. Pur nella difficoltà di parola, riusciva ad apostrofarmi con un termine straniero molto dolce. Così riconosceva il valore che io avevo ai suoi occhi. È un qualcosa che mi è sempre rimasto dentro, quel “mio bijoux jolie” mi ha accompagnato e protetto psicologicamente per tutto il resto della mia vita».

Anche don Marco si sente fragile, ma ci tiene a sottolineare che questa vulnerabilità non va nascosta con una pretesa di perfezionismo. «Mi sento realizzato come prete nel prendermi cura degli altri, ben venga se per loro anche da questo mio essere fragile può venire qualche barlume di speranza. Cristo mi chiama ad assumere la mia umanità, essa può anche diventare trampolino per la sua grazia ». È qui la radice, approfondita negli anni del Seminario, che ha portato don Marco a mettersi in gioco personalmente nel terreno impervio della malattia, dove poter “danzare” anche con il sostegno di una preparazione scientifica adeguata ai tempi. Portandosi dentro la frase preferita del vangelo di Giovanni: «Che Dio è amore. E questa è anche la mia esperienza di vita».