Il gesuita astronomo Funes. Il catechismo? Sotto le stelle
Padre José Gabriel Funes, già direttore della Specola Vaticana, oggi docente di filosofia della natura all’Università Cattolica di Cordoba e guida di un gruppo di ricerca interdisciplinare sulla vita intelligente extraterrestre
C’è sempre bisogno di poeti, a cantare la fascinosa solitudine della luna. Servono scienziati per cercare anche tra gli astri la radice del nostro abitare la terra. E mai dovranno mancare le notti di san Lorenzo con i desideri affidati alle polveri di cometa che chiamiamo stelle cadenti. Da sempre il cielo è una domanda di senso e una promessa di infinito.
Guardarlo, immergersi nel suo mistero, ci rimanda alla piccolezza delle creature e insieme alla grandezza del Creatore.
Alzare gli occhi, immergersi nel blu, apre alla preghiera di lode e ringraziamento, fa respirare lo spirito, può diventare scuola di fede. Non a caso in “Ripartiamo insieme. Linee guida per la catechesi in Italia in tempo di Covid”, la Cei invita al catechismo negli spazi aperti. Perché, ad esempio, «non spiegare ai bambini la creazione mostrando il cielo stellato?». «Mi sembra un’ottima idea – osserva padre José Gabriel Funes, già direttore della Specola Vaticana, oggi docente di filosofia della natura all’Università Cattolica di Cordoba e guida di un gruppo di ricerca interdisciplinare sulla vita intelligente extraterrestre –. Come ci insegna la storia del popolo ebraico e di tutti i grandi popoli antichi, guardando il cielo si pongono le grandi domande. La Bibbia racconta che quel Dio che ha liberato Israele dalla schiavitù d’Egitto è lo stesso che ha creato le stelle, le galassie, l’universo. E ciò che noi siamo». Nella Scrittura com’è noto sono numerosi i rimandi alle stelle come sentinelle luminose del Regno, come firma di bellezza all’opera di Dio. Il Salmo 8 ad esempio, con la famosa dichiarazione di lode: «Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissate, che cosa è l’uomo perché te ne ricordi e il figlio dell’uomo perché te ne curi?». «Il Salmo 8 certo – osserva padre Funes – ma a me piace moltissimo anche il passo del libro del profeta Baruc: “Le stelle bril- lano dalle loro vedette e gioiscono; egli le chiama e rispondono: Eccoci! e brillano di gioia per colui che le ha create”. (3,34-35)».
Nelle linee guida Cei l’invito a spiegare ai bambini la creazione mostrando il cielo Padre Funes: bella idea ma si deve tenere conto anche delle acquisizioni scientifiche
Ansa archivio
Ma per iniziare una catechesi guardando in alto da cosa bisogna partire?
Credo che si debba tenere conto non solo del cielo stellato ma anche dei progressi scientifici fatti dall’umanità nella conoscenza dell’origine dell’universo. Ormai tutti conoscono il big bang, a partire dai ragazzi che studiano l’evoluzione.
C’è una disciplina, la big history, cui mi sono molto interessato negli ultimi anni, che esamina la storia dal big bang ad oggi: la fede, il racconto biblico hanno senso anche in questa prospettiva scientifica, vi si può trovare un senso religioso. Credere non chiude ma apre, allarga gli orizzonti. Io nella catechesi terrei conto anche delle conoscenze scientifiche perché sono divenute parte della nostra cultura.
Quindi l’astronomia non è detto che allontani da Dio..
Dio lo possiamo trovare in tutti ciò che facciamo. Immagino ad esempio che la pandemia abbia avvicinato di più i ragazzi alla medicina, alla biologia, alla ricerca di una cura adeguata contro il Covid. Praticare la scienza, parlo dell’astronomia ma non solo, può avvicinare a Dio.
E in fondo l’astronomia è la disciplina che ci mette più in contatto con l’infinito.
Non sono un antropologo ma mi piace pensare che tra i primi atti dell’umanità, quelli che ci rendono veramente umani, trascendenti, che ci differenziano dagli animali, ci sia guardare il cielo. Così come c’è l’homo sapiens io dico che c’è l’homo astronomus.
Aggiungo che i gesuiti hanno capito presto l’importanza di questa scienza perché i missionari, per esempio Matteo Ricci, insieme alla religione hanno portato l’astronomia. Non solo in Cina ma anche in India e in America Latina. Nel 1700 in molte missioni dei gesuiti, le reducciones come diciamo qui in Argentina, c’erano anche osservatori astronomici. E questo fa capire l’importanza che la Chiesa ha sempre dato a quella che per molti secoli è stata la scienza più di frontiera.
Avamposto del dialogo tra fede e ragione, dunque.
Certamente. Mi piace citare il celebre verso di Dante che chiude l’ultimo canto del-l’Inferno: “E quindi uscimmo a riveder le stelle”. Per me è un’espressione che fa capire l’importanza dell’astronomia, scienza che anche nelle crisi gravi come quella che stiamo vivendo ci apre a una prospettiva più cosmica, più universale, meno incentrata su noi stessi. Ci apre alla trascendenza di Dio.
È vero che nella sua storia personale la vocazione dell’astronomia è arrivata prima di quella sacerdotale?
Cronologicamente è stato così. Io mi sono sentito chiamato a seguire il Signore nella Compagnia di Gesù quand’ero studente di astronomia all’Università di Cordoba. Molte volte mi chiedono se mi sento di più uno scienziato o un prete. Io rispondo che sono un gesuita. Voglio dire che la mia identità personale è segnata dalla Compagnia di Gesù. Dentro questa vocazione mi sento di servire il Signore, la Chiesa, il popolo di Dio facendo l’astronomo, cioè quello che sin da piccolo sognavo di diventare.
Tornando alla catechesi, guardare il cielo significa insegnare ai ragazzi che facciamo parte di una realtà molto più grande di noi.
Questo fa parte del racconto biblico della creazione. Con la nostra catechesi dovremo cercare di arrivare a questa sintesi: quel Dio che ha creato le stelle, le galassie, i pianeti, è lo stesso Dio che si è manifestato in Gesù e che ci dice di avere cura della terra, come dice il Papa, e dei più poveri che in questi momenti di crisi sono quelli che soffrono maggiormente.
Il Papa sta molto insistendo sulla tutela della casa comune. Questo vale anche per il cielo, penso all’inquinamento luminoso che ci impedisce di vedere le stelle, ma anche alla spazzatura, ai detriti buttati nello spazio.
Dobbiamo avere molta cura della casa comune perché è l’unico luogo che hanno gli esseri umani da abitare. Alcuni possono pensare che se sulla terra non fosse più possibile potremmo andare a vivere su Marte, ma è molto difficile. Io non posso prevedere la storia della tecnologia ma se ad oggi non possiamo dire come trattare questo virus, allo stesso modo non possiamo immaginare il futuro dei viaggi spaziali, che oltretutto costano moltissimo. Dobbiamo essere realisti, l’astronomia ci dice che la terra è molto fragile e d’altronde lo verifichiamo: pensiamo agli incendi in California, agli uragani sempre più forti, al clima che diventa estremo. Situazioni che producono conseguenze gravi e a pagarle sono soprattutto i poveri.
Ma c’è una preghiera dell’astronomo, dell’innamorato delle stelle che ama ripetere?
Il testo di Baruc che ho citato prima mi colpisce molto. E poi mi piace pensare che i santi patroni degli astronomi siano i Magi, che seguirono la stella. I Magi ci insegnano a guardare i segni dei tempi, a scoprire Dio in quel Bambino Gesù che con molta umiltà vanno ad adorare. In loro vedo i santi patroni degli astronomi e di tutti quelli che cercano Dio con una coscienza sincera, retta.