Chiesa

Milano. «Io, sacerdote tra le tombe dei grandi. Il dolore parla del valore della vita»

Viviana Daloiso sabato 2 novembre 2024

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Pensava di arrivarci «da morto», frate Arturo Busetti, al cimitero. Che fosse quello di casa a Bergamo, «che è silenzioso e più raccolto», o il Monumentale di Milano, affollato questo primo di novembre come Gardaland, con le scolaresche in coda per la foto ricordo sui gradini davanti al Famedio e i vasi di fiori colorati sistemati ovunque per accogliere l’arcivescovo Mario Delpini alla tradizionale Messa di Ognissanti. «E invece – scherza il religioso, dei frati minori – sono vivo e vegeto, il cimitero è diventata la mia casa». La “chiamata” è arrivata un giorno del 2019, in un convento di Cermenate, vicino Cantù, «dove ero arrivato dopo tanti giri: non sono mai stato fermo, io, prima gli Spedali Civili di Brescia, poi Como, poi Monza». Infine Milano, appunto, col ruolo di cappellano del grande cimitero dove sono sepolti i cittadini illustri del passato lontanissimo e vicino e dove la chiesa è un gioiellino incastonato esattamente sotto la tomba di Alessandro Manzoni. Un’emozione, celebrare Messa tutti i giorni qui? «Non lo so, a dire il vero non ci penso tanto. È più un’emozione vedere le panche stracolme e dover spesso lasciare aperte le porte di domenica, quando la chiesa si riempie di giovani famiglie e di bambini che scorrazzano a destra sinistra». Il piccolo prodigio della vita, al Cimitero Monumentale, si compie soprattutto grazie al grande popolo di Comunione e Liberazione, devoto al culto della tomba di don Luigi Giussani: un parallelepipedo di vetro, in fondo alla direttrice principale, sulla sinistra, con una foto semplice e un cassetta per le lettere e i messaggi lasciati dalle migliaia di pellegrini. «Per visitarla arrivano a gruppi sui pullman, da Milano o anche dal Veneto e dal Piemonte – racconta frate Arturo –: attraversano il cimitero, vanno sulla tomba di Giussani, poi ne approfittano per celebrare Messa qui da me». Ma ci sono anche gli affezionati del Pret de Ratanà, al secolo don Giuseppe Gervasini, un sacerdote molto conosciuto in Lombardia per le sue capacità taumaturgiche e anche lui sepolto lungo i viali costellati di statue e monumenti. Il risultato è «che ho una parrocchia più viva di molte altre, nel mezzo di un cimitero, e parrocchiani sempre diversi».

È ai vivi, d’altronde, che frate Arturo cerca sempre di parlare nelle lunghe giornate trascorse tra funerali e tumulazioni: «I primi assomigliano sempre a degli esami. Le famiglie si presentano qui facendo una breve descrizione di persone che non conosco ovviamente, che non fanno parte della mia comunità, dal momento che non ne ho una precisa. Ed è difficile, capire, è difficile prepararsi un discorso. Così quando cominciano a dirmi “desiderava questo e questo” io li ascolto e poi chiedo “e voi? Voi che cosa desiderate? Penso sempre che quel momento, e la Messa a seguire, mi serviranno per parlare ai vivi appunto – continua –. E non per convertirli, o per offrire loro risposte, ma per far sì che davanti a una cosa grande come la morte si facciano delle domande: chi sono? Che cosa voglio? Cosa mi dice il fatto che anche la mia vita potrebbe finire, all’improvviso, e cosa ne rimarrebbe?».

Non c’è un altro posto dove sia così chiaro, d’altronde, come l’ordine delle priorità di questo nostro mondo sia fragile e inconsistente: «Celebro sotto le spoglie di Manzoni, appunto, l’uscita posteriore della mia chiesa affaccia sulle tombe di Giorgio Gaber e Alda Merini, poco più in là tocca a Jannacci e a Fogar – continua frate Arturo – eppure davanti alla morte siamo tutti uguali». Sarà per quello che lui, cappellano del Monumentale da 5 anni, del cimitero sa ancora poco: «Mi piace scoprirlo poco a poco, ancora mi serve la mappa per capire dove mi trovo, e quando mi chiamano sulle tombe per le benedizioni chiedo sempre d’essere prelevato qui in chiesa da un familiare. Camminando mi guardo intorno, leggo le frasi sulle tombe o davanti alle cappelle di famiglia. In questi spostamenti ho scoperto che ci sono tante statue di san Francesco, per esempio, poco conosciute». E poi? «E poi di nuovo i vivi: i turisti di passaggio che vengono a confessarsi, quelli che mi chiedono se serve aiuto e si mettono a spolverare, quelli che vogliono fare una donazione: a volte me ne hanno fatte di impressionanti». Ad Arturo piace immaginare la sua chiesa del cimitero come un albero, su cui ci si posa per caso, inciampandoci, si sta un po’ fermi per guardarsi intorno e prendere fiato, «per poi volare via di nuovo». Lui lo fa di pomeriggio: attraversa la grande piazza e raggiunge il convento con gli altri frati di Sant’Antonio, la grande mensa dei poveri, il centro d’ascolto: «Non finisce al cimitero, in fondo, la mia vita».