Intervista a Betori. II «Padre Nostro», ecco come cambia in italiano
La traduzione italiana del Padre Nostro potrebbe cambiare presto. E proprio nel senso auspicato di recente da papa Francesco. Esiste infatti già una proposta della Cei - da «non indurci in tentazione» a «non abbandonarci alla tentazione» - recepita nella nuova traduzione della Bibbia Cei e nel Lezionario, ma ancora in attesa del via libera della Santa Sede per quanto riguarda l’uso liturgico nel Messale. Quando quel via libera arriverà, la preghiera insegnata da Gesù si potrà recitare con le parole «non abbandonarci alla tentazione» in tutte le occasioni. A ricostruire il lungo lavoro di vescovi, teologi e biblisti che ha portato alla nuova versione è il cardinale Giuseppe Betori, che afferma: «Bene ha fatto il Santo Padre a porre pubblicamente la questione e anche a rilevare che la Cei il suo passo l’ha già fatto ». L’arcivescovo di Firenze, apprezzato biblista, ha seguito, infatti, il lavoro di traduzione fin dal 2000, quando era sottosegretario della Conferenza episcopale italiana. In tal modo è stato testimone oculare della convergenza sulla nuova formula - «non abbandonarci alla tentazione» di due personalità del calibro di Carlo Maria Martini e Giacomo Biffi, che non esita a definire «rispettivamente il miglior biblista e il miglior teologo all’epoca presenti nel Consiglio permanente della Cei».
Eminenza, come andarono dunque le cose?
L’inizio del lavoro risale in realtà al 1988, quando si decise di rivedere la vecchia traduzione del 1971, ripubblicata nel 1974 con alcune correzioni. Fu istituito un gruppo di lavoro di 15 biblisti coordinati successivamente da tre vescovi (prima Costanzo, poi Egger e infine Festorazzi), che sentì il parere di altri 60 biblisti. A sovrintendere questo gruppo di lavoro c’erano naturalmente la Commissione episcopale per la liturgia e il Consiglio permanente, all’interno del quale era stato creato un comitato ristretto composto dai cardinali Biffi e Martini e dagli arcivescovi Saldarini, Magrassi e Papa. Questo Comitato ricevette e vagliò anche la proposta di una nuova traduzione del Padre Nostro e, tra le diverse soluzioni, venne adottata la formula «non abbandonarci alla tentazione», sulla quale in particolare ci fu la convergenza di Martini e Biffi, i quali come è noto non sempre si ritrovavano sulle stesse posizioni. Ora, il fatto che ambedue avessero approvato questa traduzione fu garanzia per il Consiglio permanente, e poi per tutti i vescovi, della bontà della scelta. Eravamo ormai nell’anno 2000 e io fui presente a quella seduta in quanto sottosegretario della Cei.
Fu dunque un lavoro di squadra.
Esattamente. Fu un lavoro fatto dai migliori biblisti d’Italia, che furono guidati dai vescovi massimamente esperti in teologia e in Sacra Scrittura e che ebbe nei diversi passaggi del testo al vaglio del Consiglio Permanente la garanzia di un lavoro ben fatto, così da rassicurare l’intero episcopato.
Perché si scelse proprio quella traduzione?
Non è la traduzione più letterale, ma quella più vicina al contenuto effettivo della preghiera. In italiano, infatti, il verbo indurre non è l’equivalente del latino inducere o del greco eisferein, ma qualcosa in più. Il nostro verbo è costrittivo, mentre quelli latino e greco hanno soltanto un valore concessivo: in pratica lasciar entrare.
I francesi hanno tradotto ne nous laisse pas entrer en tentation, cioè, «non lasciarci entrare in tentazione». C’è differenza?
Noi abbiamo scelto una traduzione volutamente più ampia. «Non abbandonarci alla tentazione» può significare «non abbandonarci, affinché non cadiamo nella tentazione» - dunque come i francesi «non lasciare che entriamo nella tentazione» -, ma anche «non abbandonarci alla tentazione quando già siamo nella tentazione». C’è dunque maggiore ricchezza di significato perché chiediamo a Dio che resti al nostro fianco e ci preservi sia quando stiamo per entrare in tentazione, sia quando vi siamo già dentro. La Commissione degli esperti aveva fatto anche altre ipotesi, ma tutte più restrittive rispetto alla ricchezza di significato della traduzione poi scelta e approvata.
Perché questa nuova traduzione non è ancora nell’uso liturgico?
Nel 2001 la Congregazione per il culto emanò nuove disposizioni sulle traduzioni: la Liturgiam authenticam, che dovrà essere rivista, come ha segnalato papa Francesco dopo aver pubblicato il motu proprio Magnum Principium. Quel documento raccomandava traduzioni più letterali, per cui dovemmo rivedere tutto il lavoro di traduzione della Bibbia sotto la supervisione di un gruppetto di esperti guidati da tre vescovi: Caprioli, Monari e Bianchi. Insieme con loro lavorarono, oltre a me, otto biblisti di riconosciuto valore. Il tutto fu trasmesso ai vescovi, che suggerirono non poche modifiche, la maggior parte delle quali furono accolte, ma non toccarono la proposta di traduzione del Padre Nostro, e alla fine, nell’Assemblea della Cei del 2002, venne approvata l’intera traduzione con 202 “Sì” su 203 votanti. Il testo del Padre Nostro, se ben ricordo, fu votato e approvato a parte, per non avere nessun dubbio. La recognitio della Santa Sede arrivò nel 2007 e l’edizione della Bibbia Cei è quella del 2008.
E per l’uso liturgico?
In seguito si passò al Messale, perché il Padre Nostro si recita anche durante la Messa e in altri riti liturgici. La proposta fu quella di trasferire nel Messale la traduzione del Padre Nostro che era stata approvata nella Bibbia. E così avvenne. Questa traduzione, però, per poter entrare nell’uso liturgico deve essere “vidimata” dalla Santa Sede con quella che ora, in base alle nuove norme volute dal Papa, è una approbatio. Ma questo manca ancora. Non sappiamo se la Santa Sede ce la farà cambiare, ma si può pensare che il testo proposto venga approvato, considerato anche l’apprezzamento che sembra emergere per esso nelle parole del Santo Padre nella recente intervista sul Padre Nostro. Invece il nuovo Lezionario, cioè il libro delle letture durante la Messa, è già stato approvato dalla Santa Sede e qui il testo del Padre Nostro contiene la formula «non abbandonarci alla tentazione».
In definitiva, quando arriverà l’approbatio, anche nella preghiera che recitiamo individualmente si dovrà dire «non abbandonarci alla tentazione»?
Penso di sì, perché sarebbe strano avere una preghiera nella liturgia diversa da quella del catechismo e della vita spirituale. Forse ci vorrà un’altra approvazione da parte dei vescovi? Ma i vescovi una volta che hanno approvato il cambiamento per il Messale, ritengo che implicitamente l’hanno approvato anche per tutte le occasioni in cui si recita la preghiera del Signore.
Il tema sollecitato dal Pontefice: «Cado io, non è Lui che mi spinge»
A porre l’attenzione sulla traduzione della preghiera insegnataci da Gesù è stato il Papa stesso. Nel corso della settima puntata del programma di Tv2000 “Padre nostro” condotto da don Marco Pozza, cappellano del carcere di Padova, Francesco ha infatti sottolineato come l’espressione secondo cui «“Dio induce in tentazione” non sia una buona traduzione». Anche i francesi – ha aggiunto il Papa – «hanno cambiato il testo con una traduzione che dice “non lasciarmi cadere nella tentazione”. Sono io a cadere, non è lui che mi butta nella tentazione per poi vedere come sono caduto. Un padre non fa questo, un padre aiuta ad alzarsi subito». Dalla conversazione del Papa con don Pozza è nato anche il libro “Padre nostro” di papa Francesco, edito da Rizzoli e dalla Libreria Editrice Vaticana (pagine 144; euro 16) in cui, tra l’altro, il Pontefice sottolinea che «quello che ti induce in tentazione è Satana, quello è l’ufficio di Satana».