Ad Gentes. Missionari, tempo di semina. Rigon: «Non ridursi a essere Ong»
Un momento del Festival della Missione, a Milano
Agostino Rigon, laico veronese, 60 anni, una vita spesa nell’animazione missionaria – oggi è direttore dell’Ufficio per la pastorale missionaria della diocesi di Vicenza – quest’anno ha iniziato il suo ottobre missionario, il mese che la Chiesa dedica a questo tema dagli anni Sessanta del secolo scorso, con un piglio speciale. È stato lui infatti il direttore generale del Festival della Missione, la manifestazione, giunta alla seconda edizione, che si è tenuta a Milano da giovedì a domenica scorsi.
Rigon, qual è il ritorno concreto che le congregazioni e le associazioni missionarie hanno avuto da questa esperienza?
Per capirlo davvero dobbiamo aspettare. Per ora la risposta della gente – quasi 30mila le persone che hanno partecipato ai vari momenti del Festival – ci fa capire che la missionarietà è ancora un terreno di incontro per tanti, sia come esperienza ecclesiale che come condivisione di sogni e ideali di fronte alle sfide globali.
Cosa l’ha colpita di più fra le varie storie e testimonianze?
Suor Nelly León, con i suoi 18 anni nelle carceri femminili di Lima, padre Gigi Maccalli, la storia di Zakia Seddiki e di suo marito, l’ambasciatore Luca Attanasio, assassinato nella Repubblica Democratica del Congo, ma anche storie di impegno missionario in Italia. Poi mi ha colpito l’interesse da parte dei moderatori di vari incontri, mi viene in mente il giornalista Rai Riccardo Iacona che sembrava emozionato dal sentire storie così significative, forti, piene di umanità.
Perché allora i grandi media sembrano indifferenti a questa ricchezza?
Mah, sappiamo che funziona quello che fa audience e porta introiti. Però in questo caso ho trovato grande sensibilità da parte del mondo laico. Ci siamo anche collocati in mezzo alla gente, da subito abbiamo immaginato che la nostra location dovesse essere la piazza, non una chiesa o un istituto, in una “comfort zone”. Questo ha fatto la differenza e ci ha permesso di raggiungere più persone.
Come fare perché la missionarietà non diventi un attivismo sociale da Ong?
La missione è qualcosa che ci supera, nessuno di noi può vantare di poterla interpretare nel modo migliore. Il rischio di lavorare come delle Ong lo corriamo tutti, è un rischio che hanno le stesse strutture religiose. Credo che il Festival sia stato anche un’occasione per guardarsi in faccia, per fare autocritica in alcuni casi, per ripensarci, per riuscire a coniugare meglio la forma con i contenuti che dobbiamo trasmettere.
Secondo lei il Festival avrà dei frutti vocazionali?
Il Festival è stato una semina. Poi c’è la coltivazione e infine la mietitura. I tempi li dobbiamo lasciare a Dio.
Chi ha contribuito a coprire le spese dell’evento?
Non c’è niente che si voglia fare, di qualità, che non abbia un costo. Servono risorse umane ed economiche. Quando abbiamo iniziato a pensare alla seconda edizione, dopo la prima a Brescia, non sapevamo che sarebbe stata a Milano, pensavamo a una città più secondaria. Quando abbiamo saputo che la Conferenza episcopale lombarda aveva scelto Milano ci siamo rimboccati le maniche, abbiamo accettato la sfida e da un punto di vista economico abbiamo trovato diversi partner, da fondazioni bancarie a istituzioni attive nel sociale, che hanno dato contributi anche importanti. Insieme alle diocesi lombarde e alla segreteria generale della Cei, che ci ha dato un forte sostegno. Noi abbiamo cercato di essere vigili, abbiamo cercato di seguire una linea di sobrietà. Adesso dobbiamo fare quadrare gli ultimi conti, ma siamo convinti che sarà possibile, per poi pensare al futuro.
Ci sarà un’altra edizione? Fra quanti anni?
I promotori – la Fondazione Missio e la Conferenza degli istituti missionari italiani – ha creato un ente giuridico, il Comitato Festival della Missione, che adesso ha una struttura e l’esperienza per poter immaginare passi successivi.Tenga conto che questo Festival ha avuto una preparazione di 32 mesi.