Chiesa

Il punto. Poco più di 129mila su 43 milioni: cosa vuol dire essere cristiani in Algeria

Giacomo Gambassi venerdì 8 novembre 2024

La bandiera algerina

È una piccola campana nel chiostro che ogni domenica annuncia la Messa a Tibhirine. A distanza di quasi tre decenni dall’assassinio dei sette trappisti nel 1996 rivendicato dal Gruppo islamico armato, il monastero nel cuore dell’Algeria islamica continua a essere una “lezione” di incontro e dialogo. Tenuta viva dai religiosi di Chemin-Neuf. E capace di attrarre ogni anno migliaia di visitatori, per il 90% algerini di fede musulmana. «Sono toccati dal sacrificio dei monaci e dalla pace del luogo – raccontano i consacrati della comunità francese a vocazione ecumenica che dal 2016 ha “ereditato” il monastero –. Vogliono conoscere meglio questo episodio che fa parte della storia nazionale». Se Tibhirine è «un luogo della riconciliazione», come lo chiama Chemin-Neuf, vive al tempo stesso le tensioni religiose che si toccano con mano in tutto il Paese. I monaci vengono scortati quando escono e il complesso è presidiato dalle forze dell’ordine. Di fatto è lo specchio di una nazione dove il rapporto con il mondo cristiano è ambivalente e contraddittorio.

A Orano il centro diocesano “Pierre Claverie” accoglie ogni settimana decine di bambini musulmani per attività extrascolastiche. «Le famiglie si fidano di noi – dicono gli animatori –. I cristiani di Francia accetterebbero di affidare i propri figli a una struttura collegata alla moschea?». Eppure, stando al rapporto 2024 sull’“Indice globale di persecuzione dei cristiani”, l’Algeria è, insieme con il Laos, il Paese in cui le azioni anticristiane sono cresciute di più in un anno. Il dossier parla della «fine di un sogno» nella nazione che costituiva «un’eccezione nel Maghreb con le sue grandi chiese cristiane». E l’ultimo report di “Aiuto alla Chiesa che soffre” denuncia: «Il rafforzamento autoritario del regime che detiene il potere politico ha dato luogo a un’intensificazione delle ostilità contro le minoranze religiose». A finire nel mirino sono soprattutto le comunità cristiane riformate che vengono accusate dalle autorità di proselitismo ed evangelizzazione in una terra dove l’islam è religione di Stato, in base alla Costituzione, e il proselitismo è reato. Infatti, secondo la famigerata Ordinanza del 2006 sulle religioni non islamiche, chiunque «seduca con l’intento di convertire un musulmano» rischia tra i tre e i cinque anni di carcere.

Secondo i dati ufficiali, quasi tutti i cristiani sono stranieri e provengono per lo più dall’Africa subsahariana. Si stima siano 129mila su 43 milioni di abitanti e vivano in gran parte nella regione di Cabilia, nel nord dell’Algeria. È quella in cui è più diffusa la comunità evangelica che conta 100mila credenti e che preoccupa lo Stato per le conversioni che ha favorito. Su 46 chiese, solo quattro restano aperte. Le altre sono state chiuse per disposizione governativa dal 2017 a oggi. Aumentano anche gli interventi repressivi della magistratura: il presidente dell’Église Protestante d’Algérie, Salaheddin Chalah, è stato condannato a 18 mesi di reclusione per «culto non autorizzato»; e a Orano il giudice ha confermato la condanna a cinque anni di prigione per Hamid Soudad, cristiano che ha ripubblicato una vignetta di Maometto su Facebook. Sotto scacco i musulmani convertiti che «subiscono pressioni sociali e vengono penalizzati nelle eredità», sottolinea “Aiuto alla Chiesa che soffre” che ricorda la chiusura definitiva di Caritas Algeria «il 1° ottobre 2022 a seguito di una richiesta delle autorità pubbliche». Complicato persino ottenere i visti d’ingresso per i ministri di culto cristiani che arrivano dall’estero.