Chiesa

Il caso. L'allontanamento di Enzo Bianchi da Bose, si tenta ancora il dialogo

Luciano Moia mercoledì 27 maggio 2020

Ritrovare la rotta in mezzo alla burrasca. È la grande sfida della Comunità di Bose che sta attraversando il momento più cupo della sua storia. Il giorno dopo il terremoto, i fratelli e le sorelle di Bose – una novantina sparsi in cinque comunità oltre alla sede storica nel Biellese – hanno scelto il silenzio.

L’ex priore Enzo Bianchi invece, in una nota, si appella alla Santa Sede «perché ci aiuti e, se abbiamo fatto qualcosa che contrasta la comunione, ci venga detto. Da parte nostra, nel pentimento siamo disposti a chiedere e a dare misericordia».

Ci vorrà tempo però per rimarginare quella che comunque, rimane una ferita profonda e dolorosa. Una cosa è certa. Indietro non si può tornare. Perché il decreto, datato 13 maggio 2020, che porta la firma del segretario di Stato vaticano, cardinale Pietro Parolin, ed è stato «approvato in forma specifica dal Papa», non è appellabile. Il documento (LEGGI QUI) impone al fondatore di Bose, l’ex priore Enzo Bianchi, di allontanarsi dalla comunità «e trasferirsi in altro luogo, decadendo da tutti gli incarichi attualmente detenuti». La stessa imposizione che dovranno osservare altri due fratelli di Bose, Goffredo Boselli e Lino Breda. E una sorella, Antonella Casiraghi.

Una decisione dolorosa che è però frutto di un lungo e sofferto discernimento. Come lungo e sofferto è stato per Bose quest’ultimo triennio, da quando cioè nel 2017 Enzo Bianchi aveva deciso di cedere la guida della comunità ed era stato eletto al suo posto fratel Luciano Manicardi. Una svolta consensuale, anzi auspicata dallo stesso fondatore, che però non ha dato i frutti sperati. Anzi si è tradotta in frequenti momenti di incomprensione «per quanto riguarda l’esercizio dell’autorità del fondatore, la gestione del governo e il clima fraterno», si legge nel comunicato apparso sul sito di Bose.

Oggi però Enzo Bianchi ha spiegato di non aver mai contestato «con parole o fatti l’autorità del legittimo priore Luciano Manicardi, un mio collaboratore stretto per più di vent’anni, quale maestro dei novizi e vicepriore della comunità, che ha condiviso con me in piena comunione decisioni e responsabilità».

Di fatto però la comunità è stata costretta per mesi a vivere in bilico tra il rispetto per la presenza importante del fondatore, con tutto il peso del suo carisma, e la fatica del nuovo priore di individuare nuove modalità per rilanciare il percorso profetico tracciato 55 anni fa, una coraggiosa sfida ecumenica che ha saputo rappresentare una voce di speranza per i cristiani di ogni confessione.

Anche Bose aveva però da tempo la necessità di trovare nuove modalità per vivere pienamente il suo carisma, per rimettere a punto «le linee portanti di un processo di rinnovamento che – come auspicato dalla comunità stessa – infonderà rinnovato slancio alla nostra vita monastica ed ecumenica». In questo progetto è apparso ai visitatori apostolici – la delegazione vaticana era composta dall’abate Guillermo Leon Arboleda Tamayo, da padre Amedeo Cencini e da suor M. Anne-Emmanuelle Devéche, abbadessa di Blauvac – che dal 6 dicembre 2019 al 6 gennaio 2020 sono rimasti a Bose raccogliendo testimonianze e pregando insieme ai fratelli, che la presenza del fondatore potesse rappresentare motivo di incomprensioni e non agevolare la risoluzione di problemi e tensioni. Troppo forte la personalità di Enzo Bianchi per non rischiare che quella ricchezza si traducesse anche in un ingombro. Come lui stesso ieri ha ammesso: «Comprendo che la mia presenza possa essere stata un problema».

Ora la grande prova è rappresentata dallo sforzo di evitare strappi troppo dolorosi. Nessuno, evidentemente, avrebbe desiderato che la situazione giungesse a questo punto. Né certamente il Vaticano, né la comunità che ha sopportato mesi di incomprensioni e di fatiche relazionali. E ancora meno Enzo Bianchi che ora però vorrebbe una soluzione meno traumatica, magari con la possibilità di continuare a risiedere in quell’angolo di Piemonte, sulla serra di Ivrea, in cui ha cercato per oltre mezzo secolo di ricreare il clima e le modalità della Chiesa delle origini. Il dialogo quindi, coordinato da padre Amedeo Cencini, cui è stato affidato l’incarico di delegato pontificio, non si ferma e l’auspicio di tutti è che, nel rispetto del decreto della Segreteria di Stato, si possa arrivare ad una soluzione condivisa.

Sarebbe spiacevole disperdere un percorso d’unità che ha segnato nell’ultimo mezzo secolo una traccia luminosa nella vita della Chiesa.