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Daily Sabbah, uno dei quotidiani turchi più letti, ha riportato appena ieri nelle pagine di politica le parole di monsignor Louis Pelatre, il vescovo latino di Istanbul, che annuncia il programma del viaggio di papa Francesco. La percezione della sua visita, che inizia domani, è ancora sfumata e il Papa dovrà dividersi tra attese diverse e diverse realtà in questo Paese a maggioranza musulmana: la dimensione politico-sociale, quella ecumenica e interreligiosa e il contatto breve ma intenso con la comunità cattolica. Una presenza questa veramente minima nella città di Istanbul, che da sempre rappresenta un Paese nel Paese a cavallo di due continenti, un microcosmo, un ponte, crocevia di uomini, dove si radunano i due terzi dell’intera presenza cristiana in Turchia, in tutto poche migliaia. Ed è una comunità, quella cattolica, che a sua volta è divisa in riti diversi: latino, armeno, siriano, caldeo. «Ma c’è da tenere presente – spiega padre Claudio Monge, teologo domenicano e direttore del Centro per il dialogo interreligioso e culturale a Istanbul – che la Turchia sta imbarcando migliaia di profughi, soprattutto iracheni, siriani, circa 65mila solo a Istanbul, tra i quali ci sono anche molti cristiani». Ultimamente si assiste inoltre a un incremento dell’afflusso di immigrazione centroafricana e si è rafforzata l’immigrazione dell’Est Europa e dell’Estremo Oriente, in particolare dalle Filippine, in gran parte costituita da cristiani cattolici. «Quindi – afferma il domenicano – è una comunità a geometria variabile che richiede un’estrema capacità di accogliere anche lingue nuove che si aggiungono, esperienze e tradizioni diverse». Per farsene un’idea basta andare alla cattedrale latina di Saint-Esprit, vicino alla sede della Nunziatura che per 11 anni aveva ospitato Roncalli, futuro Papa. Vi si accede da un’anonima porticina affacciata su una delle grandi arterie che collegano la centrale piazza Taksim con i quartieri di Sisli e Nisantasi. Dal 1969 è affidata ai Salesiani ed è il parroco, don Nicola Masedu, di origine sarda e con alle spalle una missione in Iraq, a raccontare della presenza cattolica. «I parrocchiani effettivi – spiega – sono circa duecento, la domenica si celebrano due Messe: una in francese, frequentata da levantini e una in inglese, molto partecipata anche da filippini, africani, famiglie inglesi e diversi gruppi di pellegrini. Celebrano poi qui anche i siro-cattolici, i caldei e gli armeni». Ai salesiani è affidato anche il santuario della Madonna di Lourdes e la parrocchia latina a Bursa dove la liturgia è invece in lingua turca. La celebra don Felice Morandi che a Istanbul vive da 51 anni ed è diventato cittadino turco. Oltre alle varie attività di assistenza religiose, i figli di don Bosco hanno aperto nelle adiacenze della chiesa anche una scuola per i figli dei profughi iracheni e siriani frequentata attualmente da 280 ragazzi. La parrocchia ha dunque un volto multiculturale, plurietnico e multilinguistico. «È il riflesso di una Chiesa – spiega don Andrei Calleja, direttore e amministratore della comunità salesiana – che rispecchia e rispetta la pluralità della Turchia di oggi. È la Chiesa dei tanti emigrati e dei rifugiati, che non si chiude nell’autopreservazione in un circolo identitario ma s’inserisce nel tessuto della società in cambiamento, tra un processo islamizzante da una parte e la secolarizzazione dall’altra». Anche per padre Monge la sfida della minoranza cristiana adesso è «quella di rompere le isole delle divisioni per un cammino comune verso l’essenza del Vangelo e di abbracciare la diversità per una presenza disinteressatamente evangelica, interrogante e soprattutto capace di condivisione in questo crocevia di popoli e razze». A Istiklal Caddesi, la via principale della parte europea di Istanbul dove passa più di un milione di persone ogni giorno, un edificio nascosto dalla luce dei negozi ospita la piccola comunità dei Frati Minori, storica presenza cristiana nel cuore dell’antica Bisanzio. Padre Ruben Tierrablanca è il superiore e il direttore della Fraternità per la promozione del dialogo ecumenico e interreligioso, sorta undici anni fa. «Il fatto di essere minoranza ha anche un vantaggio, perché ci porta subito alla convivenza e alla solidarietà – afferma –. Il proselitismo? È chiaro che non funziona. La vita missionaria richiede principalmente tre cose: carità, pazienza nel tempo e creatività. Il dialogo non si fa a tavolino, e l’ecumenismo qui ci viene dettato dalla realtà stessa, che ci chiede di stare insieme per arricchirci. E di restare aperti a tutti».