La storia. Don Moretto, 85 anni, ancora parroco nella terra del prosecco
Don Antonio Moretto
COLBERTALDO ( TREVISO) Ha 85 anni, prete da 50, e ancora parroco in attività. Nonostante le traversie, soprattutto di salute, negli anni giovanili, non ha mai perso l’entusiasmo, la passione. «Ci vuole passione nella testimonianza del Vangelo, anche se ci rimette il cuore, come nel mio caso».
Parliamo di don Antonio Moretto, parroco di una comunità che cento anni fa ha patito duramente la Prima guerra mondiale, sul Piave, che lambisce il paese, e poi la seconda. Prima di arrivare sulle colline del Prosecco, a Colbertaldo, vocate alla protezione dell’Unesco come patrimonio paesaggistico dell’umanità, don Antonio è stato in missione. «Nel povero e fragile scaffale della mia vita mi rivedo come in una biblioteca di 50 volumi, anzi di 60, compresi i 10 del cammino vocazionale. Un cammino tutto in salita – ammette –, pieno di buche, di fango e polvere, di sassi e massi, di frane... la salute: due interventi allo stomaco a 16 anni, la sospensione degli studi a causa della seconda guerra mondiale, la povertà della famiglia, la “vocazione adulta” poco affidabile in quei tempi in cui i Seminari straripavano di vocazioni di bambini e ragazzi e le parrocchie avevano preti in abbondanza. Grazie al Signore che mi ha aperto e appianato la strada per mezzo di coraggiosi sacerdoti: ho raggiunto la meta che mi ha portato nel terzo mondo, Uruguay, Bolivia e Argentina».
Don Antonio, infatti, è stato ordinato prete a Canelones, in Uruguay, nel 1968. «Era un sogno già da bambino, quando ordinato presbitero a 35 anni mi sono immerso tra i poveri, gli ultimi, i maltrattati, gli affamati, nelle dittature le cui atrocità avevo visto da ragazzo in Italia durante la Seconda guerra mondiale».
Le precarie condizioni di salute gli hanno imposto di ritornare in Italia. Era il 1991. Si è fatto carico di due parrocchie, Vidor e Colbertaldo. «Abbiamo avviato una delle prime unità pastorali della diocesi di Vittorio Veneto. Oggi ci si lamenta perché non tutte le comunità dispongono di un prete residente. Ma in Bolivia, io e il vescovo, facevamo i “saltimbanchi” tra 27 villaggi, il più vicino a 25 chilometri, il più lontano a 250, che raggiungevamo solo a dorso di cavallo, come racconto nel mio libro “Il grido del popolo”».
Le terre del Prosecco garantiscono una buona qualità della vita, ma anche qui, nonostante tutto, confessa, il problema più grande «per me presbitero è rileggere la sofferenza, le ferite, il dolore e il pianto di tanta gente che mi richiama alle situazioni vissute oltre oceano». «Come sacerdote ogni giorno spezzo il Pane, lo consacro nella Messa, mi nutro del Corpo e Sangue di Gesù e mi domando: perché Dio mio quello che faccio è sempre troppo poco? Come sacerdote da 50 anni, prima nelle lontane missioni del sud del mondo, ora nella missione che è qua, non mi è mai bastato il lavoro in parrocchia: Messe, preghiere, catechesi, attività pastorali, visite alle famiglie e ai malati, accoglienza e ospitalità agli immigrati, spesso in un clima di indifferenza e di cristianesimo di facciata, solo di tradizione, ma carente di convinzione e di testimonianza e credibilità. Lo Spirito Santo ha mandato un nuovo vento in papa Francesco per scavare nei cuori, nella Chiesa e nell’umanità, e aprirli alla misericordia di Dio. Noi preti, con entusiasmo, dovremmo saper accoglierlo. C’è ancora, invece, una grande sofferenza, per me e per noi presbiteri: il linciaggio verso tanti uomini di Chiesa che vivono l’oggi con coraggio e con profezia. Ci sono anche oggi tanti poveri Cristi crocifissi perché vivono con coraggio la novità e la libertà del Vangelo; tanti, presbiteri e non, che camminano con fatica ma con fecondità sulla strada della santità».