Chiesa

La storia. Don Beotti martire del nazismo beato a Piacenza il 30 settembre

Barbara Sartori venerdì 7 luglio 2023

don Giuseppe Beotti

Dal martire Antonino, il soldato del terzo secolo che depose le armi per abbracciare il Vangelo portando il cristianesimo a Piacenza, fino a don Giuseppe Beotti, ucciso dai tedeschi il 20 luglio 1944 “in odium fidei”.

È stata scelta la festa del patrono della città e della diocesi per annunciare la data di beatificazione dell’ultimo martire piacentino riconosciuto dalla Chiesa, il sacerdote che aiutò tanti ebrei a mettersi in salvo e pagò col sangue la decisione di non abbandonare i suoi parrocchiani di Sidolo di Bardi nel pieno delle rappresaglie nazifasciste.

Sarà il cardinale Marcello Semeraro, prefetto del Dicastero vaticano delle cause dei santi, a presiedere la celebrazione il 30 settembre nella Cattedrale di Piacenza. È la seconda che la Chiesa-madre della diocesi di Piacenza-Bobbio ospita, dopo quella, nel 2018, di un’altra martire, suor Leonella Sgorbati, la missionaria della Consolata uccisa a Mogadiscio, in Somalia, pronunciando per tre volte la parola “perdono” prima di spirare. Anche don Beotti, di fronte al plotone d’esecuzione, a poche decine di metri dalla chiesa di Sidolo, morì facendosi il segno di croce, il breviario stretto nella mano sinistra. Quattro giorni prima, la domenica, dal pulpito aveva formulato questa preghiera: «Se mancasse ancora un sacrificio per far cessare questa guerra, Signore, prendi me!».

Il Vescovo con don Giuseppe Basini, parroco di Sant’Antonino e vicario generale, la priora delle Carmelitane scalze suor Maria Francesca Eugenia del Cuore di Gesù (la prima religiosa a sinistra, con in mano il premio) e le altre monache in rappresentanza della comunità, ovvero le due giovani piacentine suor Maria Cecilia di Gesù Amore e suor Antonella Teresa Sincletica della Carità di Cristo, e ultima a destra suor Maria Paola di Cristo Re - .

«Solo se rimaniamo radicati in Qualcuno che ci trascende possiamo vincere la paura. La paura è ciò che ci indebolisce dal di dentro», ha richiamato il vescovo Adriano Cevolotto nell’omelia della Messa per il patrono. Antonino ci indica «ciò che deve animare ogni realtà presente nel territorio urbano, ossia la ricerca di un bene di tutti e per tutti». Si tratta - ha rilanciato il presule – di promuovere una «città ospitale » in alternativa alla logica dominante di un «io-isolato», che crea solitudini rivendicando solo diritti individuali e generando conflitti e nuove povertà. Di qui, l’invito alla comunità piacentina - autorità, categorie economiche, singoli cittadini - a curare le relazioni, gli spazi urbani, a dare una risposta all’emergenza abitativa che tocca lavoratori precari, famiglie immigrate, studenti fuori sede. Il vescovo ha anche proposto piste di lavoro concrete.

«Credo sia un’urgenza progettare, in uno sforzo condiviso e trasversale, il recupero di quegli spazi abbandonati, in disuso, occupati fino a tempo fa da caserme ». E ancora: « Il concorso dev’essere di tutti. Penso in particolare a quelle realtà approdate nel nostro territorio con gli insediamenti della logistica. Cosa possiamo chiedere perché il nostro territorio possa ricevere parte del profitto dei loro investimenti?».

Ma non c’è vera progettualità, non c’è futuro ospitale, se si taglia Dio fuori dall’orizzonte della storia. È la sottolineatura che arriva dall’Antonino d’Oro 2023, assegnato alle Carmelitane scalze nel 350° di presenza in città. « È il richiamo forte, nel “già” del tempo in cui viviamo, di un “non-ancora” che è una promessa senza la quale l’esistenza collassa su se stessa», ha spiegato Cevolotto ricordando anche l’altra realtà monastica cittadina, le benedettine. « La clausura non è una chiusura, ma un’apertura all’infinito nel giocarsi nelle relazioni.

Siamo al Carmelo perché il mondo è in fiamme, come diceva Teresa e come si può dire di ogni epoca», ha sottolineato la priora suor Maria Francesca Eugenia del Cuore di Gesù, che guida la comunità di 12 monache, ritirando il riconoscimento con tre consorelle. « È bello e significativo ricevere un premio come comunità – ha aggiunto –. Fa percepire, a noi prima di tutto, il frutto che le relazioni tessute ogni giorno all’interno del monastero, a volte anche con fatica, danno: un frutto che, pur nel nascondimento, si vede, arriva, fa bene, a noi, ma anche agli altri».