Il libro. «Che fatica vivere con i santi!». Parola di don Benzi
Don Oreste tra i bambini alla Messa
«Non correte il terribile rischio che, per essere del tutto cristiani, diventate disumani». Il paradosso colpisce come uno schiaffo e costringe a rileggere due o tre volte: ma come, essere super cristiani ci può rendere disumani? Sono seicento le citazioni di questa potenza raccolte nel volume “Don Oreste Benzi. Aforismi, aneddoti e provocazioni” (Editore Sempre) da Elisabetta Casadei, teologa e postulatrice della causa di beatificazione del sacerdote di Rimini morto proprio il 2 novembre, nel 2007. Un libro snello, di quelli da comodino o da portare in borsa, con le seicento frasi che “si mangiano come le ciliegie”, in ordine o aprendo le pagine a caso, come gli antichi facevano con le “sortes” per lasciarsi guidare. «E’ un volumetto per camminare con un amico affidabile», dichiara l’autrice in prefazione, anzi, per trovare nei momenti difficili « un post dal Cielo» firmato da don Oreste e «con il solito post scriptum con cui terminava gli incontri: Dai! Ci stai?».
Si parla di amore e dolore, carriera e fallimento, politica e battaglie sociali, santità e incoerenza, giovani e solitudine, errore e redenzione (un ricco indice analitico aiuta e trovare gli aforismi dedicati ai vari temi), e il risultato è – per dirla con l’autrice – «uno scrigno di perle e di sberle», frasi affascinanti o scomode, colpi d’ala per gioire o ceffoni per darsi una mossa. Il tutto nello stile del prete romagnolo (fondatore della Comunità Papa Giovanni XXIII), ovvero senza mai puntare il dito, anzi, ricordando che «l’uomo non è il suo errore» (uno dei suoi più celebri aforismi), che «nessuna donna nasce prostituta, c’è sempre qualcuno che ce la fa diventare», e ancora che «dove c’è una persona arrabbiata o violenta, c’è sempre un cuore ferito. Sempre!».
Dunque l’antidoto che disarma rabbia e violenza è trattarle con amore, affermazione, questa, per nulla sdolcinata, basata sull’esperienza di un prete che in 42 nazioni ha creato 6.000 strutture di accoglienza per gli ultimi tra gli ultimi e gli scarti degli scartati. «Ho la convinzione profonda che nella misura in cui l’altro si sente amato smette di essere aggressivo», scrive infatti. Più che chi ha sbagliato, teme i giudici inflessibili (in fondo i “super cristiani” dell’inizio), cui non le manda a dire: «Quando vi sentite sicuri e distinguete molto bene fra i buoni e i cattivi, cominciate ad avere paura di voi stessi, perché forse non c’è un posto dove mettervi». Nelle sue centinaia di case famiglia ha accolto tutti senza distinzione, purché avessero bisogno, drogati e carcerati, malati e anziani soli, senzatetto e viados, vittime e sfruttatori: «Una volta ho chiesto a dei carcerati “che differenza c’è tra Padre Pio e voi?”. Nessuno sapeva rispondere. La dignità ci viene dal fatto che siamo figli di Dio! Padre Pio è vissuto da figlio di Dio ma la sua dignità non gli viene dalla sua santità. Avete sbagliato, ma c’è dentro di voi la grandezza di essere figli di Dio. Ecco perché siamo contro la pena di morte, l’ergastolo, la vendetta».
La sua logica è schiacciante, dietro l’aspetto bonario ci sono il cervello e la profonda cultura del teologo che però sa sporcarsi le mani, come scrive a proposito del rapporto imprescindibile tra la formazione e la vita concreta: «La formazione è quando ci sei dentro fino al collo. Esistono scuole di teologia molto valide, ma bisognerebbe fare sei mesi di studio e sei di condivisione», dichiara senza con franchezza. D’altra parte la “condivisione diretta” è il concetto base su cui si fonda l’agire quotidiano della sua Comunità sparsa nel mondo: «Dare da mangiare agli affamati, come dice il Vangelo, anzi, imboccarli, è l’atto più bello. Ma come fai a imboccarli? O vai tu a mangiare alla mensa (dei poveri) o li fai venire a casa tua. Vestire l’ignuno vuol dire che sei tu che devi vestirlo, non gli devi semplicemente mandare un container di pantaloni». Di nuovo logica stringente. E pure profetica, scritta anni prima che un neo eletto papa Francesco ci provocasse chiedendoci se, quando diamo l’elemosina, tocchiamo la mano del mendicante o stiamo attenti a far cadere la moneta senza contatti: «Stringi la mano al povero almeno una volta alla settimana», è il precetto di don Oreste.
Don Benzi tra i poveri senza una casa, in stazione - Foto di Riccardo Ghinelli
Prete di tutti («Là dove è l’uomo, lì deve esserci il prete. Non può chiudersi nelle sacrestie, deve essere segno che orienta un cammino»), va sui marciapiedi notturni, nelle carceri, nelle discoteche, sulle panchine delle stazioni, dove la speranza è la prima a morire. Per questo lo criticano e lo fraintendono, ma lui ricorda che «La morale cristiana non è un insieme di regole ma una relazione d’amore» e che «Mi si rimprovera che vado nei locali dove sono esaltati certi comportamenti aberranti, ma non facciamo gli ipocriti, è il luogo che rende perverso l’uomo o è l’uomo che rende perverso il luogo? È a loro che il Signore mi manda. Spero che prima di morire il Signore mi faccia la grazia di andare in tutte le discoteche». Conosce bene la solitudine di tanti giovani privi di una guida: «Quanti ce ne sono di orfani con i genitori vivi!», e ancora «I figli non ascoltati diventeranno certamente disadattati e non sapranno più con chi parlare», così li va a cercare, se serve anche nei loro inferni, dove non servono prediche ma esserci, anche in silenzio: «I giovani, prima che stare a sentire, guardano cosa tu vivi». Esattamente come chi soffre e muore senza la fede: «Come si fa a parlare del dolore a chi non crede? Non si parla. Si vive a fianco».
Di fronte al dramma dell’aborto, poi, mette a nudo l’ipocrisia di una «società degenere, che finge di preoccuparsi dei malati e dei disabili, ma fa di tutto per ucciderli prima che nascano». Un misfatto ancora più atroce alla luce di un altro aforisma fulminante: «L’uomo è una parola irripetibile di Dio», ha una sola occasione.
Don Oreste Benzi, il prete di tutti - Papa Giovanni XXIII
La vera cura – l’amore – guarisce anche le persone così disabili da non saper fare nulla, i figli prediletti nelle sue case famiglia. Così spiega ciò che a tanti appare un mistero: «Noi accogliamo coloro che non abbiamo generato fisicamente non per curarli e istruirli, ma perché Dio li ama e ce li dona. Andiamo anche in capo al mondo per curarli e istruirli, ma li teniamo con noi anche se sono irrecuperabili». Don Benzi non si accontenta della carità, vuole la giustizia, la rivoluzione. Chiede che si aiutino le persone crocifisse ma intanto si distruggano le croci e chi le costruisce: «Non dobbiamo parlare di affamati ma di chi affama, non di oppressi ma di chi opprime. La devozione senza la rivoluzione non serve a niente». Su questa linea, allora, chi sono i barboni? «La gente risponde “i senza casa”. No: i barboni sono quelli che stasera non vogliamo nella nostra casa a dormire»... Come scrive ironicamente l’autrice, “Don Oreste non è proprio quel genere di preti che vorresti come santo della porta accanto, poiché ogni giorno (e anche di notte!) potrebbe succedere di tutto. Del tipo presentarsi all’uscio, come nulla fosse, con in braccio due bambini (di cui uno naturalmente disabile) e fissarti con quegli occhioni candidi, sotto il colbacco nero; o baby prostitute accompagnate dalla polizia in piena notte; o zingari accampati sul pianerottolo, solo per citare i casi più probabili...”.
Per dirla con don Oreste, «con i santi è una grande fatica stare, si sta meglio con i peccatori!», ma lui si metteva tra questi ultimi.