Preti per sempre. «Morto per amore, uomo della speranza»: Milano ricorda don Meschi
Don Isidoro Meschi, ucciso il 14 febbraio 1991 da un giovane in difficoltà a cui aveva dato amicizia e aiuto
«Nel paese del disincanto» don Isidoro Meschi «apparteneva alla gente della speranza». A trent’anni dal suo sacrificio «rendiamo grazie per la sua testimonianza» che ci incoraggia a percorrere «la stessa strada». Così l’arcivescovo di Milano, Mario Delpini, ha ricordato il sacerdote ambrosiano ucciso a 46 anni scarsi – il 14 febbraio 1991 a Busto Arsizio (Varese) – da un giovane con gravi problemi psichici che da lui aveva ricevuto amicizia e aiuto. L’occasione: la Messa presieduta dallo stesso Delpini la sera dello scorso lunedì 15 febbraio nella basilica di San Giovanni Battista, a Busto. Dunque: nella città dove il prete – nato a Merate (Lecco) il 7 giugno 1945, ordinato il 28 giugno 1969 – ha prestato servizio fino al martirio.
Farsi prossimo fino al dono della vita. Come don Malgesini
Dopo il primo incarico come vicerettore del Seminario arcivescovile di Venegono Inferiore, don Meschi venne inviato come vicario in San Giovanni Battista, a Busto. Ebbe numerose responsabilità e impegni a livello parrocchiale e diocesano (educatore in oratorio, membro del Consiglio presbiterale, direttore dell’edizione dell’Alto Milanese del settimanale «Luce»). Fu anche insegnante di religione. Il suo fu uno stile di vita contrassegnato dall’accoglienza e dalla povertà evangelica. Per molti fu guida spirituale luminosa e affidabile. Negli anni ’80, di fronte al dilagare dell’eroina fra i giovani, don Meschi aprì un punto di ascolto, poi in una cascina ristrutturata fondò la comunità di recupero «Marco Riva». Intrecciando esperienza e studio, «don Lolo» (com’era affettuosamente chiamato a Busto) elaborò un metodo di riabilitazione originale. Su questo e su altri fronti si spese senza risparmio, fino al dono totale di sé. Fino a quel 14 febbraio di trent’anni fa, quando venne accoltellato a morte da uno dei suoi giovani. La sua fu davvero «una tragica morte subita per amore», come ha detto Delpini lunedì sera auspicando che «quel sangue diventi seme di nuove vocazioni». Un farsi prossimo fino al sacrificio della vita: come trent’anni dopo avrebbe fatto un altro prete lombardo, don Roberto Malgesini, del clero di Como, anch’egli ucciso da una persona che aveva aiutato.
Martini: segno evangelico in un mondo distrutto dall'odio
Per il funerale – celebrato da 150 sacerdoti e da due vescovi – si raccolse una folla di circa ventimila persone, come riportano le cronache del tempo. Alla Messa di suffragio che aveva preceduto le esequie, il cardinale Carlo Maria Martini, allora arcivescovo di Milano, disse: «Sono certo che questa morte sarà un grande segno evangelico. Non è una morte come le altre, non è una semplice disgrazia, non è una semplice perdita di un prete giovane da cui speravamo molto per la diocesi, non è un semplice vuoto ma un grande segno evangelico e voi tutti che siete venuti qui, che lo avete conosciuto, lo sentite profondamente come un grande segno evangelico per un mondo distrutto dall’odio. […] E io oso affermare che questo segno non sarà solo per questa comunità, non sarà solo per la città di Busto Arsizio, sarà per tutta la diocesi, per tutto il clero. Chissà che un giorno non possa essere un segno per tutta la Chiesa e fare parte della santità della Chiesa».
Mons. Pagani: chiama la città a non dimenticare i poveri
Il sacrificio di don «Lolo» non è rimasto senza frutto. Lo attestano le persone e le realtà che proseguono la sua testimonianza e coltivano la sua memoria, come fa l’associazione «Amici di don Isidoro». E davvero «la sua memoria è straordinariamente viva», ha affermato monsignor Severino Pagani, parroco di San Giovanni Battista, all’inizio della Messa di lunedì, e la sua testimonianza «è un invito alla nostra città perché nessuno si dimentichi mai dei poveri» – mentre la sorella di don Isidoro, prendendo la parola alla fine della celebrazione, lo ha ricordato come modello di santità per i giovani, introducendo alla recita della «Preghiera per la beatificazione» di don Meschi.
Delpini: con lui costruiamo fraternità nel paese del disincanto
«Nel paese del disincanto e della rassegnazione, dove si compatisce chi si impegna per costruire una città abitabile e una comunità fraterna», ha chiesto Delpini aprendo l’omelia lunedì sera, «c’è ancora la gente della speranza, quella che sogna nuovi cieli e nuova terra, si appassiona all’impresa di aggiustare il mondo, riconosce il germogliare della giustizia che rimane per sempre e crede che sarà la vita a vincere e non la morte?». Sì, questa gente c’è anche se non fa rumore e non attira l’attenzione, ha ripreso l’arcivescovo. «La gente della speranza pratica la parola di Gesù. Che dice: rendete a Dio quello che è di Dio», ha aggiunto attingendo al Vangelo proclamato ieri e invitando alla «contemplazione che si fa conformazione ai sentimenti di Gesù», che è «imitazione della sua bontà verso tutti, della sua sollecitudine verso i piccoli e i poveri, verso gli scartati dalla società». Ecco: «la gente della speranza non cammina verso la terra promessa con la gratitudine dei privilegiati, ma con la compassione di chi opera per la fraternità di tutti». E «si affida alla promessa di Dio e guarda oltre la storia e quello che si può vedere, misurare, vendere, comprare. Il regno di Cesare è impressionante nella sua potenza, ma è precario e corre dietro al vento. Il Regno di Dio è eterno». Ebbene: «nel paese del disincanto don Isidoro ha continuato a dimorare nello stupore, pensoso come un intellettuale e incantato come un bambino, nella consuetudine dell’indifferenza ha praticato la compassione, nei fallimenti educativi e nell’incomprensibile violenza ha testimoniato una attesa più grande e una fiducia più invincibile. Apparteneva a quella gente che chiamiamo la gente della speranza. Ora – ha concluso Delpini – incoraggia anche noi a percorrere, secondo quello che ci è chiesto oggi e che è possibile, la stessa strada. Chiama anche noi a essere la gente della speranza».