Chiesa

L'intervista. Parolin: con l'accoglienza si costruisce la pace

Stefania Falasca mercoledì 24 agosto 2016

Cardinale Pietro Parolin, lei, come segretario di Stato vaticano, sarà da domani a Canale d’Agordo per le celebrazioni in occasione del 38° anniversario dell’elezione di papa Luciani. Quale significato ha per lei questa ricorrenza?Ho accettato volentieri l’invito a recarmi nel paese natale del servo di Dio Giovanni Paolo I per il particolare amore e la particolare devozione che nutro nei suoi confronti. Ammiro la sua santità vissuta. Spero che non manchi molto alla proclamazione delle sue virtù e si possa giungere alla sua beatificazione. Che cosa ricorda della sua elezione? Ricordo con emozione quel 26 agosto del 1978, quando il cardinale Albino Luciani, patriarca di Venezia, divenne Giovanni Paolo I. Mi stupì, come stupì molti, la rapidità del Conclave che scompaginava i pronostici elaborati dalla stampa nei giorni precedenti. Nella considerazione e nella decisione dei cardinali prevalse il criterio ecclesiale di mettere al centro la più importante qualità di un vescovo: il suo essere pastore. E Luciani è stato un pastore esemplare, nel solco del Concilio. Un testimone del Vangelo, nell’assoluta coincidenza tra quanto egli insegnava e quanto viveva, con fedeltà quotidiana alla sua vocazione. Dalla sua terra, cosa ha portato al mondo papa Luciani? Giovanni Paolo I viene da un retroterra sociale e culturale, in cui la religione non è mai stata una sovrastruttura, ma un tessuto connettivo e d’integrazione. Una terra allora provata da un’emigrazione che oggi sembra esperienza dimenticata e nella quale i parroci costituivano figure di riferimento non solo nell’ambito religioso, ma anche in quello sociale, secondo la dottrina sociale della Chiesa. Ha portato al mondo una fede vissuta e praticata ora per ora nella povertà e nell’amore. Qual è il messaggio attuale della figura di Giovanni Paolo I? Direi anzitutto che Giovanni Paolo I, nella sua semplicità evangelica, è stato un grande testimone dell’amore misericordioso di Dio. Lo stesso papa Francesco lo ha ripreso nel suo libro sulla misericordia. Nel corso del suo breve pontificato con efficacia, ha messo al centro l’amore e di Dio e del prossimo e le opere di misericordia, e ha ripercorso con i gesti e le parole le strade aperte dal Concilio nella fedeltà al Vangelo: in particolare la povertà ecclesiale, la collegialità, come anche la ricerca dell’unità con i fratelli ortodossi e la pace. Penso al suo appello all’Angelus del 10 settembre in favore della pace in Medio Oriente, nel quale chiamava alla preghiera i presidenti di fedi diverse. La sua figura e il suo messaggio sono straordinariamente attuali. Proprio in merito alla pace. Nei conflitti in Medio Oriente e in Nord Africa, come quello in Libia, si registrano nuovi interventi militari, simili a quelli realizzati in passato. Le sembra che tali interventi esprimano conoscenza adeguata della realtà e aiutino davvero una soluzione delle crisi? La Comunità internazionale, secondo la Carta fondamentale dell’Onu, ha l’obbligo di mantenere la pace e la sicurezza. Nell’ottemperare a questo dovere, essa è chiamata a interessarsi delle situazioni di conflitto secondo gli strumenti del diritto internazionale, tra i quali, in primo luogo, il dialogo e la diplomazia. Il ricorso a mezzi militari è previsto dallo stesso diritto solo come ultima istanza. Fin dall’inizio, in Medio OC riente e in Libia, i Papi e la Santa Sede hanno rivolto appelli affinché si mettesse fine ai conflitti. Purtroppo, la debolezza della Comunità internazionale nell’assumere le proprie responsabilità e interessarsi alle sofferenze delle popolazioni ne hanno provocato il prolungamento. D’altra parte, è anche vero che molte volte gli interventi di forze straniere contribuiscono, per vari motivi, ad acuire i conflitti e le sofferenze delle popolazioni civili. Papa Francesco ha detto con chiarezza che la 'terza guerra a pezzi' a cui assistiamo non è una guerra di religione. Ma c’è stato chi ha criticato i musulmani che hanno partecipato alle Messe, dopo il martirio di padre Hamel. Come giudica queste critiche? Il terrorismo, che è una manifestazione di questa 'guerra a pezzi', ha provocato tante vittime, distruzioni, lutti e dolori anche in Europa. Papa Francesco ha rifiutato chiaramente la tesi secondo cui staremmo assistendo ad una guerra di religione. Non c’è una guerra tra cristianesimo e islam. Una prova ne è che il terrorismo islamico colpisce da un punto di vista numerico più i musulmani che i cristiani. Certo, non si può negare che i militanti dell’Isis stanno strumentalizzando l’islam per giustificare i loro atti di violenza. E le loro dichiarazioni in tal senso sono proprio un tentativo di evocare la cosiddetta 'guerra di religione'. Non dobbiamo cadere nella loro trappola. Anche parecchie autorità islamiche hanno condannato il terrorismo perpetrato nel nome dell’islam. Così la partecipazione dei musulmani alle Messe dopo l’uccisione di padre Hamel è nata come segno di fraternità, di solidarietà e di rifiuto della violenza. Ovviamente, è diversa la condizione di chi vi entra in chiesa come cattolico e da chi vi entra come non cattolico. Le autorità ecclesiastiche competenti hanno rilasciato indicazioni in materia, e a volte il mancato rispetto di queste indicazioni dà adito a malintesi e a critiche. Il dialogo con l’islam, sulla via indicata dal ConcilioVaticano Il, può essere criticato come un idealismo ingenuo? Nell’Evangelii gaudium, papa Francesco ha ribadito che il dialogo interreligioso è una condizione necessaria per la pace nel mondo e, pertanto, praticarlo è doveroso per i cristiani come per gli appartenenti alle altre comunità religiose. 'C’è una parola - ha sottolineato il Papa nel suo messaggio ai partecipanti al Meeting di Rimini - che non dobbiamo mai stancarci di ripetere e soprattutto testimoniare: il dialogo. L’esempio, come sempre, viene da Gesù: è Lui ad insegnarci che il cristiano coltiva sempre un pensiero aperto verso l’altro, chiunque egli sia'. Criticare o respingere il dialogo tra le religioni come un idealismo ingenuo mi sembra segno di un pessimismo esagerato ed è anche pericoloso. Non c’è, a mio parere, un’alternativa al dialogo, sebbene non sia sempre facile. Superare malintesi culturali, politici, sociali e religiosi, che durano da secoli e che sono alimentati anche da fenomeni attuali richiede tanta pazienza, un atteggiamento di profonda attenzione e di rispetto verso tutti e deve cominciare dalla convinzione che ogni persona gode della stessa dignità umana. La Santa Sede guarda con particolare sollecitudine le sofferenze dei cristiani in Medio Oriente. Quale è il modo cristiano per essere loro vicino e aiutarli, senza strumentalizzare le loro sofferenze in chiave ideologica? La Santa Sede si preoccupa delle sofferenze dei cristiani in Medio Oriente, delle difficoltà che incontrano e delle ingiustizie - e talvolta delle persecuzioni - che subiscono e che li spingono ad abbandonare la loro terra. Che cosa sarebbe quella regione, che è la culla del cristianesimo, senza la loro presenza? Il modo cristiano di aiutarli è, innanzitutto, quello di ricordarci di loro. Dobbiamo cercare tutti i modi possibili per mostrare che siamo loro effettivamente vicini, soprattutto con la preghiera e la solidarietà concreta. In Occidente, alcuni Paesi giustificano le loro chiusure rispetto ai flussi dell’immigrazione come misure per difendere la propria identità culturale legata al cristianesimo. È legittimo usare il riferimento alVangelo per chiudere le porte agli immigrati? Assolutamente no. Non possiamo sminuire l’apertura universalistica del Vangelo, o far finta che non esista. E la Chiesa deve continuare a ripetere, senza stancarsi, a tempo opportuno e importuno, le parole del Signore: 'Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi', e 'Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso'. Lo spirito di accoglienza è parte essenziale dell’identità cristiana e un’applicazione concreta delle opere di misericordia indicate da Gesù nel Vangelo. Ovviamente, è legittimo per un Paese prendere misure legali e giuridiche per tutelare la propria identità culturale legata al cristianesimo. Ma anche tali misure vanno informate allo spirito di amore e di misericordia nei confronti di ogni persona, a partire da quelle che hanno più bisogno, senza alcuna distinzione. Nel suo viaggio in Polonia, il Papa ha colpito molti con il suo silenzio ad Auschwitz… Il silenzio del Papa era un dialogo con il Mistero. Credo che, di fronte a tanto orrore, l’atteggiamento più confacente sia proprio questo: silenzio, raccoglimento, preghiera . Il silenzio del Papa, però, è stato di un’eloquenza impressionante per ricordare al mondo che non si deve dimenticare. In questo senso, mi ha dato speranza sapere che molti ragazzi e giovani visitano questi “inferni”. Secondo lei, qual è la sorgente dell’interesse e della curiosità che gli interventi di papa Francesco continuano a destare da parte dei potenti del mondo? C’è un dato spesso sottovalutato: Papa Francesco non è un leader politico o il capo di una grande e potente multinazionale, esperto in strategie politiche, commerciali e finanziarie. Egli è il Successore di Pietro, il Pastore della Chiesa universale, scelto da Dio per questo compito arduo. Egli è chiamato, prima di tutto, a voler bene a Gesù Cristo e ad aiutare tutti noi nella Chiesa a fare altrettanto. Non dimentichiamo mai l’episodio del lago di Tiberiade, quando Gesù chiede a Pietro: 'Pietro, mi ami tu … mi ami tu più di costoro?'. La sua unica preoccupazione è quella di annunciare il Vangelo che salva, affinché gli uomini possano riconciliarsi con Dio e con i fratelli e così ritrovare speranza e pace. Mi pare che da qui nasce e attorno a qui ruota anche la sua attenzione ai temi quali con-flitti, migrazioni, salvaguardia del Creato, sviluppo economico, tutela dei deboli. Problemi sui quali i 'potenti del mondo' lo ascoltano con interesse e simpatia e gli manifestano stima perché si tratta di questioni di scottante attualità. Papa Francesco non teme di dialogare con l’umanità, con i suoi bisogni e le sue attese. Penso dunque che sia proprio la semplicità e il coraggio con cui il Papa propone il primato del dialogo e dell’incontro ad aver destato in molti leader religiosi e politici il desiderio di entrare in contatto con lui e di conoscere meglio l’azione della Santa Sede e della Chiesa cattolica nel mondo. Il dialogo tra la Santa Sede e la Cina sembra vivere un passaggio importante. Che cosa può dire al riguardo? I contatti tra la Santa Sede e la Cina continuano con spirito di buona volontà da entrambe le parti. Alla Santa Sede sta particolarmente a cuore che i cattolici cinesi possano vivere in modo positivo la loro appartenenza alla Chiesa e, nello stesso tempo, essere buoni cittadini e contribuire a rafforzare l’armonia dell’intera società cinese. E questo proprio perché i cattolici in Cina sono pienamente cinesi e, al contempo, pienamente cattolici. Il cammino della conoscenza e della fiducia reciproca richiede tempo, pazienza e lungimiranza da entrambe le parti. Si tratta di trovare soluzioni realistiche per il bene di tutti. Tanti media continuano a diffondere la vulgata secondo cui in Cina ci sarebbero due Chiese cattoliche, una fedele e in comunione con il Papa e con la Chiesa di Roma e l’altra obbediente e sottomessa al governo. Questa versione dei fatti corrisponde alla realtà e alla storia della cattolicità cinese? Sostenere che in Cina esistono due differenti Chiese non corrisponde né alla realtà storica né alla vita di fede dei cattolici cinesi. Si tratta piuttosto di due comunità entrambe desiderose di vivere in piena comunione con il Successore di Pietro. Ciascuna di esse porta con sé il bagaglio storico di momenti di grande testimonianza e di sofferenza, il che ci parla della complessità e delle contraddizioni di quell’immenso Paese. La Chiesa in Cina conosce figure di eroici testimoni del Vangelo, un fiume di santità spesso nascosta o sconosciuta ai più. L’auspicio della Santa Sede è di vedere, in un futuro non lontano, queste due comunità riconciliarsi, accogliersi, donare e ricevere misericordia per un comune annuncio del Vangelo, che sia veramente credibile. A papa Francesco sta a cuore che si superino le tensioni e le divisioni del passato, per poter scrivere una pagina nuova della storia della Chiesa in Cina. Ho fiducia che questo cammino possa essere un esempio eloquente per il mondo intero, costruendo dappertutto ponti di fraternità e di comunione.

Nel suo viaggio in Polonia, il Papa ha colpito molti con il suo silenzio ad Auschwitz… Il silenzio del Papa era un dialogo con il Mistero. Credo che, di fronte a tanto orrore, l’atteggiamento più confacente sia proprio questo: silenzio, raccoglimento, preghiera . Il silenzio del Papa, però, è stato di un’eloquenza impressionante per ricordare al mondo che non si deve dimenticare. In questo senso, mi ha dato speranza sapere che molti ragazzi e giovani visitano questi “inferni”.