Testimonianza. Il pensiero di don Mazzolari su Charles de Foucauld (santo a maggio)
In primo piano la Tomba di Charles de Foucauld nel cimitero cristiano di El Meniaa (ex El Golea) in Algeria, sul fondo la chiesa di San Francesco non aperta al culto.
In questo articolo voglio presentare il pensiero di don Primo Mazzolari su Charles de Foucauld. Faccio riferimento a una conversazione tenuta da questo famoso parroco a Genova nella sala Frate Sole nel 1958, un anno prima della sua morte.
Don Primo Mazzolari fu parroco per molti anni di un paese della Bassa cremonese, Bozzolo. Nel 1951 i vescovi gli imposero di non predicare al di fuori della sua parrocchia; gli imposero anche di non scrivere più sul giornale Adesso che lui aveva fondato. Cambiò la situazione mentre si avvicinava il Concilio: papa Giovanni XXII lo ricevette in udienza e fu chiamato a Milano come uno dei predicatori delle Missioni, volute con molto impegno dal cardinale Montini, futuro Paolo VI.
Don Primo parla anche lui come ha fatto papa Francesco di recente, di fratello Charles de Foucauld come di un fratello universale. Quando racconta la sua conversione mette in risalto la testimonianza datagli dai mussulmani che più volte al giorno pregano. Dice: «Io credo che la grazia si sia servita di questi poveri arabi del deserto per far sentire a questa anima che cosa c’è di misterioso e di grande in ogni creatura umana anche nell’ultima delle creature umane».
Mazzolari poi pensa che Charles abbia incontrato Cristo nel deserto. «Lo ha visto attraverso creature che forse non avevano mai sentito parlare di lui». Egli è arrivato alla fede, dice ancora, attraverso un cammino che gli ha dato una più autentica umanità. «Egli era di un mondo che aveva perduto la fede perché aveva avuto l’impressione che la fede fosse rimasta indietro al suo pensiero che camminava. C’è di più: un’altra parte di quel povero mondo in cui egli viveva si allontanava dalla Chiesa perché sentiva la Chiesa dall’altra parte. De Foucauld ha avvertito queste due sofferenze: ha mantenuto il suo cuore vicino a quella categoria da cui era uscito; ed ha cominciato a scendere vicino a quelli che sentivano la Chiesa dall’altra parte. Il mistero dell’Incarnazione è tutto qui».
Così don Primo racconta il processo che permette a fratello Charles di scegliere l’ultimo posto. Egli ha fatto prima un itinerario che è scoperta dell’uomo e in questo i poveri arabi vi giocano una parte. Anche la sua esperienza di esploratore del Marocco è letta come contributo al suo diventare più uomo. Dice: «E allora io capisco che cosa diventa per Charles de Foucauld il momento di Nazareth […] Ecco perché Nazareth diventa il momento ideale del Vangelo che egli deve realizzare. […] Perché l’importante è questo: l’amore all’ultimo si manifesta nell’essere come lui, non nell’avere pietà di lui».
A questo punto don Mazzolari dice quali sono i modi sbagliati di fare pastorale nella Chiesa del suo tempo; questa riflessione, secondo me, è molto utile ancora oggi. La voglio quindi spiegare. Oggi noi «abbiamo l’impressione di proteggere qualcuno. Sotto sotto abbiamo un senso di pietà che nasce da un senso di superiorità forse inconsapevole». De Foucauld ha sentito che questa non è la maniera vera di voler bene ai figli di Dio. Egli è diventato come uno di loro. Niente di più. Ha accettato di pensare come loro, non soltanto di vestire come loro. Lo sforzo che fa per apprendere bene la loro lingua non è che un mezzo per potersi identificare con loro, cosicché nessuno potesse sentirlo diverso. [….]
Poi, perché Charles de Foucauld non ha predicato il Vangelo a questi poveri fratelli del deserto? Perché non è diventato un apostolo? Don Primo fa riflettere su questo modo nuovo di “fare ministero” e dice che forse lo si dovrebbe adottare almeno nei confronti dell’Africa e dell’Asia.
Dice anche che qui da noi ci sono ambienti nei quali si è talmente male disposti verso la religione che non si sopportano parole dette dalla Chiesa. Rimane l’unica possibilità che è data dall’essere presenti come fratello Charles che non parla di Cristo; è presente diventando il fratello di tutti, un fratello universale. Però non si distacca dagli altri, rimane francese, ha contatti con gli ufficiali francesi, ma dove è, è fratello e nessuno sente di non avere un posto nel suo cuore.
Don Primo al termine della sua conferenza fa un altro passo verso la Chiesa che è la nostra oggi. Dice, infatti, che la civiltà occidentale a lui contemporanea è armata e si impone al mondo; purtroppo però il cattolicesimo di quel momento era identificato con questa sola cultura, quella europea occidentale che essa di fatto difende. Mazzolari non lo condivide: «Noi continuiamo ad andare in prestito di composizioni dove lo spirito cristiano finisce per essere imprigionato in formule che sanno ancora di paganesimo e di razionalismo».
Ancora: «Qui non è più questione di dire: noi portiamo la civiltà! Io non so che cosa possiamo portare al mondo, miei cari fratelli, se non la speranza dell’amore». Infine: «Non c’è nulla da difendere; dire a dei cristiani, che credono di avere qualche cosa da portare di là attraverso una superiorità che si serve spesse volte della forza: questa non è la strada».
Dobbiamo riconoscere che la situazione attuale della Chiesa che non si identifica con nessuna cultura e che accusando molta debolezza non difende nessuna cultura, è già una chiara scelta di don Primo. Lo dico pur sapendo che oggi non tutti condividono questa scelta anzi, e tra questi ci sono persone non cattoliche, che la combattono attaccando papa Francesco.
Cito ancora, prima di terminare, Carlo Bo di cui possediamo una postfazione alla conferenza tenuta a Genova da don Primo; egli osserva che don Primo ha del nuovo da dire: il suo è un cristianesimo riscoperto che chiede una piena assunzione dell’umanità e quindi la capacità di riconoscerle il fatto dell’uomo senza nome e senza volto, l’uomo come corpo e come spirito, una nozione che Mazzolari traduce in «ultimo fra gli uomini», un uomo nato «dalla pratica quotidiana con un mondo di umiliazioni e di miserie di cui se portava dentro di sé il peso spaventoso, sapeva poi trasformare e sublimare alla luce di una speranza totale, universale». Egli è vero fratello di un uomo così: Carlo Bo dice che in quel momento il mondo si stava convertendo a una specie di religione naturale dell’Universo che lo allontana dal Dio del Vangelo.
Perché allora non vedere in fratel Charles un modo per dimostrare che solo Cristo può animare e guidare il cammino dell’universo? Si invoca come fa il Concilio, una Chiesa che non condanni più e che al contrario riconosca i nuovi orientamenti di pensiero. I cristiani ora non devono portare agli altri parole che offendono. Così si comprende il silenzio di Gesù fino all’età adulta e il silenzio di fratello Charles.
Per questo nasce un rimprovero alla Chiesa: «Pur accettando verbalmente certi risultati e certe prospettive del progresso la Chiesa sembra non crederci». Si tratta di mettere alla pari credenti e non credenti: i credenti devono approvare le aspirazioni e le ansietà del mondo moderno. Naturalmente questo è detto mentre si apre il Concilio. Si vuole un cristianesimo convertito alle speranze della terra, domandiamoci se questo possa ancora esser detto oggi dopo il Concilio.
Carlo Bo al termine del suo scritto dice che è in gioco identificare la forza del cristianesimo e riscoprire l’immagine del Cristo spogliato di tutti privilegi, compresa la stessa condizione di figlio di Dio, per vestire l’abito umano e per farsi ultimo tra gli uomini. Cosa significa questo per la Chiesa di oggi e come cambia, se preso sul serio, la sua pastorale e la vita dei cristiani?
Provo a dire ancora e con parole mie che cosa imparo da Mazzolari. Innanzitutto un bisogno di conoscer di più il pensiero astratto e critico sul cristianesimo oggi dominante; è un compito purtroppo non svolto sufficientemente dalle Facoltà teologiche, e io stesso non saprei dove trovare scritti con questo contenuto. Penso che anche la Conferenza episcopale italiana al riguardo sia carente di attenzione. In secondo luogo i credenti devono prendere molto di più in considerazione il compito di essere umanamente maturi. La formazione in seminario e nelle facoltà teologiche, tenuto conto della decisione mantenuta di scegliere persone che scelgono il celibato, non curano come dovrebbero la crescita umana dei seminaristi.
Anche i preti sull’esempio di Mazzolari dovrebbero curare di più la loro tenuta adulta di umanità. Quando fui rettore di seminario delle vocazioni adulte del Piemonte, anni Settanta, fui testimone di severe riflessioni a questo riguardo; in particolare sulla possibile perdita di umanità per il fatto che il sacerdote non svolgesse un lavoro professionale. Bisognava esserne consapevoli e in qualche modo supplire. Nella mia esperienza un buon lavoro pastorale con le famiglie e la cura di gruppi di sposi, ha aiutato molti preti a crescere in umanità.
Quanto si perde oggi abbandonando la pastorale familiare di qualche anno fa? Mi colpisce la vita dei sacerdoti dell’abito talare e della Messa in latino; quanto è presente in loro la ricerca di crescere in umanità e quindi di curare la qualità delle relazioni umane al fine del ministero sacerdotale? Ricordo però che l’appello a crescere in umanità vale per tutti i cristiani del nostro tempo.
Trovo infine molto severo e coinvolgente l’orientamento teologico e spirituale di fratel Charles incentrato molto su Gesù, senza devozioni sparse; si tratta di un Gesù conosciuto leggendo i Vangeli in Chiesa alla presenza del santissimo sacramento. Così viene maturata da lui la decisione di essere veramente fratello di tutti gli uomini e le donne. È una attenzione non solo ecumenica, ma universale che privilegia i malati, i poveri e gli esclusi. Mi domando se questa sottolineatura non possa sfidare la cultura contemporanea, facendo della fede cristiana un opzione ancora valida e quindi non superata.
Termino con una citazione un po’ pellegrina di don Mazzolari: «E allora vi domando un’altra cosa; che ne pensate voi del Calvario? Perché in fondo, quando vedete un de Foucauld che muore a quella maniera, voi non potete non metterlo vicino al Calvario». Questa essenzialità e povertà è segnalata come una scelta che la Chiesa deve fare.
Giuseppe Anfossi è vescovo emerito di Aosta