Il libro. Davanti al presepe "mirabile segno" una gioia nuova, mai provata prima
Il presepe in una famiglia
Un “segno” che affascina anche chi non crede. Al di là della fede, il presepe è nelle vetrine e nelle librerie di tante case. Ma qual è la sua storia, quale il suo significato? Nel libro Una gioia mai provata (Edizioni San Paolo, pagina 160, 14 euro), padre Enzo Fortunato, già direttore della Sala stampa del Sacro Convento di Assisi, ripercorre la storia del presepe dalla grotta di Betlemme al primo presepe vivente di Greccio, fino alla Basilica Superiore di Assisi e a Scala, dove sant’Alfonso Maria de’ Liguori trovò ispirazione per comporre “Tu scendi dalle stelle”. La prefazione (che pubblichiamo qui di seguito) è di Domenico Pompili, vescovo di Verona, già pastore di Rieti diocesi in cui si trova Greccio. Il libro è stato presentato domenica 13 novembre nella Basilica di Sant'Anastasia al Palatino a Roma. Con l’autore sono intervenuti lo scrittore Erri De Luca, l’arcivescovo Rino Fisichella e il violinista Uto Ughi, che si è esibito in un omaggio musicale. L’evento, moderato dalla giornalista Rai Maria Rita Cavallo, è stato introdotto dal presidente dell’Associazione Giovane Europa, Angelo Chiorazzo.
«Che non venga mai meno la bella tradizione del presepe»: l’appello di papa Francesco contenuto nella lettera Admirabile signum risuona nei ricordi di ciascuno di noi, resi vivi dalle testimonianze raccolte a corollario di questo volume. Padre Enzo Fortunato ci ricorda la bellezza del «mirabile segno del presepe, così caro al popolo cristiano, che suscita sempre stupore e meraviglia», come ebbe a scrivere il Pontefice nell’incipit del suo messaggio sul significato e il valore del presepe. Quel testo fu firmato nel dicembre 2019 a Greccio, dove tutto nacque e tutto splendette della luce semplice della Betlemme reatina, nella notte del Natale 1223. Papa Francesco ci ha invitati a rivivere i passi che portarono Francesco a rappresentare l’evento della nascita di Gesù, senz’altro orpello che non fosse una greppia con un po’ di fieno, senz’altri protagonisti oltre al bue e l’asino.
Il loro muso, secondo la compianta studiosa Chiara Frugoni, sprofondato dentro a quel fieno, andrebbe inteso come l’auspicio cristiano, quando i popoli della terra, finalmente riuniti, riceveranno l’Eucarestia. Quella scena semplice fino allo scarno essenziale, eppure così pregna dell’esaltazione della povertà e della lode all’umiltà, san Francesco la realizzò nell’allora poverissimo e agricolo borgo reatino, tre anni prima della sua morte. A giungere in suo supporto, il nobiluomo Giovanni Velita, che aveva imparato a conoscere l’amico Francesco, ad ascoltarne la parola, a comprenderne lo spirito trascinante: «C’era in quella contrada un uomo di nome Giovanni, di buona fama e di vita anche migliore, ed era molto caro al beato Francesco perché, pur essendo nobile e molto onorato nella sua regione, stimava più la nobiltà dello spirito che quella della carne».
Così Francesco chiama Giovanni a sé, e gli illustra il suo progetto per la notte di quel Natale, che sarebbe giunta di lì a qualche giorno: «Se vuoi che celebriamo a Greccio l’imminente festa del Signore, precedimi e prepara quanto ti dico: vorrei fare memoria di quel bambino che è nato a Betlemme, e in qualche modo intravedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato per la mancanza delle cose necessarie a un neonato; come fu adagiato in una mangiatoia e come giaceva sul fieno tra il bue e l’asinello ». Messer Giovanni Velita signore di Greccio, quell’invito non se lo fece ripetere due volte. Predispose con estrema minuzia tutto quanto era stato disposto, e fu così che giunse il tempo della notte santa, il tempo del giubilo e dell’esultanza in cui il borgo si illuminò di ceri e fiaccole e risuonò di canti, mentre Francesco vestiti i panni del diacono intonava «con voce limpida e sonora» la parola del Signore. Betlemme è qui, non serve andare lontano.
Così come gli abitanti di Greccio dell’epoca, anche noi non abbiamo bisogno di andare a Betlemme per scoprire quanto il nostro Dio sia “umano” e vicino alla nostra vita concreta. Il Mistero del Figlio di Dio che si incarna in un Bambino che nasce splende di gioia pura nella Valle Santa reatina, in uno sperduto paese abitato da gente semplice e affamata: e da allora in poi, nei secoli, sarà più facile per tutti sintonizzarsi con l’umanità di Dio. Ma come Francesco ha potuto “inventare” un segno così umano e così vero? Papa Francesco lo spiega bene: siamo al cospetto di un “mirabile segno” al quale nessuno ha osato porre obiezioni, nonostante l’immagine di Dio mediata dalla chiesa medievale fosse piuttosto distante dal candore della notte di Betlemme.
Peraltro, neanche i vari gruppi di contestazione esistenti all’epoca, come i “pauperisti” o i catari, diffondevano tra il popolo, che pur desiderava una chiesa più “evangelica”, una presenza e un volto contemporaneamente così divino e così umano. Nel volume che state per leggere, padre Enzo tratteggia molto efficacemente la scia luminosa lasciata nella storia e nel cristianesimo da quella provocatoria intuizione francescana.
Il segno del presepe, incisivo e visibile a tutti proprio come la coda cangiante della cometa, solca cieli ed epoche, attraversa le generazioni e segna le arti. Influenza non solo i ricordi familiari legati soprattutto alla nostra infanzia, ma anche la storia dell’arte di ogni epoca e la cultura musicale di ciascun continente. Perché quella notte, la notte in cui «terminata quella veglia solenne, ciascuno tornò a casa sua pieno di ineffabile gioia», non sarebbe tale se non fosse stata accompagnata dalla dolcezza di canti antichi, arrivati quasi intatti fino a noi.
Una certezza, quella del presepe, rimasta intatta nei secoli, che ci lascia intuire qualcosa di grande: l’incarnazione del Figlio di Dio. Chi avrebbe mai pensato che l’evento inaudito dell’incarnazione potesse darsi in quel modo così normale, come accade per la nascita di qualsiasi bambino, addirittura attraverso una scena così pura da sembrare quasi inverosimile: una svolta spirituale e teologica tanto semplice quanto geniale. All’epoca della giovinezza di Francesco, l’invito più solerte rivolto ai credenti era quello di espiare i propri peccati attraverso la sofferenza, per placare l’ira di Dio che incombe su tutti gli uomini.
Un’immagine sfalzata che il Poverello ha certamente avvertito, per poi essere guidato dallo Spirito nella concezione che se Dio si è incarnato è stato per amore, che se siamo stati “redenti” è per l’amore del Cristo per noi peccatori. Perché Dio è amore, gratuità e prossimità a tutte le vittime del male. E proprio come Gesù di Nazareth, più che guardare al peccato, Francesco si concentra sulle vittime del male e mette a fuoco il volto autentico di Dio, traspone il suo amore e la sua pienezza in un segnale contrastante con quello della sua epoca.
La scelta della sua felice povertà cozza duramente con l’andamento di una Chiesa ricca, corrotta e malata, eppure lui non si fa mai giudicante. Il suo stile di vita è innocente e disarmante, l’atteggiamento è quello di un giovane uomo entusiasta della natura e delle sue creature, e di tutti gli esseri viventi che incontra sul suo cammino. Francesco libero e felice, ma allo stesso tempo obbediente a quelle che erano le gerarchie del suo tempo, getta il cuore oltre tutti gli ostacoli e lancia il messaggio sine glossa del presepe di Greccio. Lo fa solo per amore, senza alcun desiderio di rivalsa, privandolo di alcuna esibizione. Quella potentissima immagine di un Dio che si fa uomo nell’estrema povertà era la sola – oggi come ieri – in grado di arrivare al cuore di tutti, la sola capace di lasciare in ciascun animo la possibilità di riconciliarsi con il Signore e con noi stessi, ritrovando la nostra verità umana più intima e disarmante. Eppure così reale. Era quello il vero volto di Dio, dunque. Ben lungi dall’immagine di un vendicatore iracondo, veniva tra noi nella più pura gratuità, nel contesto di un presepe senza luccichii e senza pretese estetiche, in puro contrasto con un’alienante ricerca di potenza e successo.
Un messaggio che oggi arriva fino a noi a ben ottocento anni di distanza dall’epoca di Francesco, eppure ci appare così estremamente attuale da lasciarci turbati. Seppur lungi dal tempo sanguinario delle crociate, l’individualismo sfrenato del nostro tempo e la nostra tendenza a calpestare le esigenze del prossimo a favore del nostro tornaconto personale pare necessitare di un ritorno costante quella grotta, tanto fredda quanto intrisa di calore umano. Come siamo ormai avvezzi ad inquadrare in maniera nitida, attraverso gli schermi dei nostri smartphone, le scene degne di nota che si presentano dinnanzi ai nostri occhi, occorre reimparare a fissare nei nostri cuori la nitidezza di una solidarietà senza pretese e senza riscontri. Riscoprire la bellezza della scena semplice di Greccio, così come imparare ad aprirsi al prossimo con gratuità e senza preconcetti – e perché no, con un pizzico di sana e creativa follia – ci aiuterà a fissare nella mente e nell’animo il senso puro della nostra esistenza. L’immagine che ne verrà fuori sarà davvero mirabile, ben più di quella ottenuta con un moderno “filtro bellezza”.