I segnali premonitori c’erano stati. Ma neanche uno studioso esperto del mondo russo come Adriano Roccucci, ordinario di storia contemporanea all’università Roma Tre e autore di numerosi libri sulla materia (ad esempio
Stalin e il Patriarca, Einaudi) poteva immaginare che l’incontro a lungo sognato da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI si sarebbe realizzato così velocemente. «Certamente – dice – non mi aspettavo né la data né il luogo. Ma il fatto in sé era ormai maturo. Come è chiaro il messaggio per la Chiesa e per il mondo».
E in questa rapida maturazione è stato più determinante l’atteggiamento di Francesco o il cambiamento di clima all’interno del patriarcato? Da un lato hanno avuto un ruolo importante l’atteggiamento di aperta disponibilità del Papa, la sua posizione riguardo al Medio Oriente, volta a sostenere le comunità cristiane e favorire itinerari di pace; come pure quella sul conflitto in Ucraina, con la necessità più volte espressa di una pacificazione. D’altro canto però anche all’interno del patriarcato russo ortodosso il clima è cambiato. Con l’avvento di Kirill, infatti, si è sentita l’esigenza di affermare con vigore il profilo più globale di una Chiesa che è uno dei principali soggetti del mondo cristiano e che vuole avere una interlocuzione con il Papa e con la Chiesa cattolica.
Lei accennava all’Ucraina. L’incontro potrebbe giovare alla causa della pace in quella regione? Credo di sì. Anche se la situazione è complessa e non è sicuramente la componente religiosa a essere la causa del conflitto. Il patriarca e i suoi collaboratori hanno avvertito una profonda lacerazione per quanto è avvenuto in Ucraina, poiché la Chiesa ortodossa ha i suoi fedeli da una parte e dall’altra della linea di combattimento. Di fronte al rischio che contrasti confessionali possano acuire il conflitto, l’incontro, favorendo il dialogo, non potrà non avere conseguenze positive.
Lei crede a un ruolo di Putin e del Cremlino nella preparazione di questo incontro? No. Non c’è stato né un ruolo promozione, né di mediazione. Tutto è avvenuto nel solco dell’itinerario di riavvicinamento tra le due Chiese. Ma Putin e il Cremlino certamente guardano a questo incontro con favore e di certo non sono stati di ostacolo. Non bisogna dimenticare, infatti, che l’evento si colloca in una stagione di estrema difficoltà nei rapporti tra Occidente e Russia. Quindi l’incontro non potrà non indicare anche una strada di rinnovato dialogo tra due mondi così vicini, ma anche diversi e che debbono ritrovare le regioni, i modi, i contenuti di una loro relazione.
È corretto dire che in un certo senso questo incontro rompe l’isolamento della Russia? Senza dubbio e in qualche modo questo è un colpo d’ala del patriarcato che come soggetto anche internazionale apre un ponte con il mondo occidentale.
È un messaggio anche per gli Stati Uniti? Direi così: non è un incontro dai connotati politici immediati, ma ricorda al mondo che l’universo russo, e quindi anche la sua realtà statuale, costituiscono un soggetto fondamentale negli equilibri geopolitici globali. Un soggetto che non si può ignorare, che non è saggio isolare e con cui è necessario trovare delle piste di dialogo.
Ma in generale ha più influenza Putin sul patriarcato o il patriarcato su Putin? Qui va fatta chiarezza. Nella rappresentazione mediatica spesso si indulge, riguardo alla Russia, sull’utilizzo facile e superficiale della categoria di cesaropapismo. O si ritiene la Chiesa una “marionetta” nelle mani dello Stato, oppure di guarda al patriarca come a una specie di “ideologo di corte”. In realtà il paradigma delle relazioni Stato-Chiesa in Russia è diverso da quello che si è sviluppato in Occidente. E ha il suo archetipo nella realtà della sinfonia: in pratica il potere religioso e quello politico sono visti come due organi distinti di un organismo unitario. In questo contesto tra patriarca e Putin non può non esserci un rapporto anche di collaborazione. Ma da qui all’idea di una soggezione dell’uno verso l’altro o viceversa ce ne corre. Sulle grandi questioni le posizioni possono essere convergenti, ma sempre all’interno di una dinamica non priva di elementi dialettici.
Ci aiuta a inquadrare la figura di Kirill? Molto di lui dice innanzitutto la sua formazione, avvenuta alla scuola del metropolita dell’allora Leningrado Nikodim, uomo chiave nel patriarcato di Mosca negli anni ’60 e ’70, il quale sviluppò una serie di relazioni con la Chiesa cattolica, a partire dalla scelta di mandare osservatori sin dalla prima sessione del Concilio. Da lui Kirill ha maturato la consapevolezza del ruolo e della complessità della Chiesa di Roma nell’universo cristiano mondiale. Inoltre, come patriarca, egli ha scelto di proiettare la Chiesa ortodossa russa oltre i suoi tradizionali confini. È andato in Cina ed è stato ricevuto dal presidente Xi Jinping, ha visitato la Chiesa ortodossa di Polonia e incontrato la Conferenza episcopale del Paese, firmando una dichiarazione comune volta a indicare una via di riconciliazione tra il popolo russo e polacco.
Dunque è anche perfettamente coerente la scelta di un luogo di incontro come Cuba? Sicuramente. I due primati guardano al mondo intero e sono consapevoli di essere a capo di Chiese non riducibili alla dimensione europea.