Coronavirus. Il sociologo Garelli: «Al tempo del Covid cresce il bisogno di Dio»
Parla lo studioso che nel suo ultimo libro analizza il sentire religioso della Penisola «Il successo delle proposte sacre sul web sottolinea l’affermarsi di comunità di elezione rispetto a quelle ordinarie» «La sfida è intercettare i cristiani un po’ anonimi senza credere che sia facile recuperarli»
Ne siamo convinti tutti. La matematica potrà anche risultare fredda però non mente. Il suo linguaggio è perentorio, preciso, in apparenza senza trappole. E qui i numeri parlano chiaro. Nel tempo della pandemia, dalla Messa mattutina del Papa ai Rosari promossi dalla Cei, in tv e sui social il sacro “sfonda”. Un dato per tutti: venerdì 27 marzo la preghiera straordinaria di Francesco davanti a una piazza San Pietro vuota è stata seguita da 17 milioni 400mila spettatori pari al 64,6% dell’intera platea televisiva. Ma cifre record si ripropongono quotidianamente, con Raiuno e Tv2000 a tirare la fila. Più spettatori significano più credenti? A grandi ascolti corrisponde anche un aumento della pratica religiosa? Il professor Franco Garelli, tra i più noti sociologi italiani, ha da poco pubblicato il saggio Gente di poca fede (Il Mulino; pagine 264; euro 16) che offre la fotografia di un Paese incerto su Dio ma ricco di sentimenti religiosi. «Questi numeri – osserva Garelli – indicano che in quelli che possiamo definire i cattolici più attivi e convinti c’è un grande movimento di ricerca di fonti spirituali. Un flusso molto interessante verso l’utilizzo di nuove tecnologie per compensare la difficoltà di partecipare a celebrazioni liturgiche dal vivo, per avere momenti di espressione religiosa anche nella pandemia. E la Chiesa livello di base si è data molto da fare per garantire forme alternative di partecipazione. Buona parte ovviamente segue il Papa che ha scelto di far partecipare alla Messa mattutina tutto il Paese. Una presenza continua ma discreta che colpisce in particolare i credenti più vicini che possono seguirlo ogni giorno».
L’interesse però non riguarda solo loro. Anche il mondo laico dimostra attenzione, perché trova un Papa che si presenta come una figura calata nelle vicende umane, che propone il messaggio religioso con uno stile semplice ma di prossimità, di vicinanza, di compartecipazione delle sofferenze e delle angosce. Colpisce questa presenza del Pontefice straordinaria nella sua ordinarietà, umile, non ex cathedra, che parla a braccio, che offre un pensiero facilmente comprensibile, che tocca la sostanza del discorso religioso ma anche delle cose concrete. Significa che nei momenti difficili come quello che stiamo vivendo si è comunque alla ricerca di fonti, di risorse di senso. E il Pontefice pur nella stanchezza, dovuta agli anni, con il respiro affannoso e l’incedere un po’ claudicante, sa tenere viva la speranza.
L’esperienza di questo tempo potrà, se non ridisegnare, modificare le comunità dei credenti? Sta facendo crescere nella consapevolezza di molti l’idea che ci può essere una ricerca di spiritualità o di punti di riferimento oltre i confini ordinari, perché attraverso Internet uno può collegarsi con le parrocchie che vuole, con le comunità con cui si identifica di più, che riescono a organizzare meglio, che sanno offrire meditazioni, riflessioni, luoghi più significativi. Questo va nella direzione dell’affermarsi di una “comunità”, di una “parrocchia”, di elezione rispetto a una comunità ordinaria. Dà la possibilità alla gente di selezionare, di vedere, di connettersi con realtà ritenute più significative che sanno interpretare meglio il tempo presente, che facilitano il discernimento.
Il bisogno di rapporti più “normali” però non viene meno. Il virtuale è importante, soprattutto in riferimento ai giovani, ma non cancella l’esigenza dei rapporti umani anche nel campo dello spirito. C’è sempre la nostalgia di una comunità, di un rito reale, non formale, cui uno partecipa e che gli scandisce la vita. Resta il bisogno di un luogo, di un punto di riferimento, di uno spazio, di un ambiente fatto di volti, di un popolo cui si appartiene, anche fisicamente rappresentato.
In “Gente di poca fede” lei parla del cattolicesimo culturale come fenomeno emergente nel nostro Paese. L’attenzione ai riti in tv va in questa direzione? Credo che il cattolicesimo culturale ne sia meno protagonista. Non per nulla all’inizio dicevo che i più presenti sono i credenti convinti e attivi, meno quelli che vivono ai margini di una vita di fede, che interpretano il cattolicesimo, il cristianesimo in chiave identitaria, etnico-culturale più che religiosa e spirituale. Questi ultimi, che pure possono in parte riconoscersi con il Papa, avrebbero bisogno di figure religiose con un’alta capacità di mediazione, in grado di interpretare anche il lato spirituale di un’appartenenza di tipo culturale. E oggi non se ne vedono tante nel nostro Paese. Non è facile trovare interpreti capace di gettare un ponte tra il credere e un’appartenenza più anagrafica che spirituale dal punto di vista religioso.
Da più parti la Chiesa si interroga su che cosa maturerà al termine di questo periodo. Si parla di ritorno all’essenziale.... Io ho promosso e commissionato all’istituto Ipsos una ricerca su “Gli italiani e la religiosità durante il Covid-19”. Dall'indagine emerge che in questo periodo prevalgono più i segni di fede che di indifferenza religiosa, più la vicinanza che la distanza da Dio. Sono pochi quelli che prendono spunto dalla pandemia per distaccarsi ancora di più, tuttavia la crescita del bisogno, della domanda religiosa e spirituale resta circoscritta, coinvolge molto di più i credenti praticanti o i cattolici impegnati rispetto alla totalità dei credenti cattolici. E questo mi dà l’idea che non possiamo più rappresentare il nostro Paese come quello di un cattolicesimo di popolo. Dobbiamo uscire da questa prospettiva non perché la Chiesa rinunci a offrire il suo messaggio ai credenti o che si ritengono tali in chiave culturale più che religiosa spirituale. Credo anzi che debba prestare attenzione anche a questi “quasi credenti”, anche a chi sta ai margini della fede.
Tenendo però conto della loro distanza con i credenti impegnati e attivi, mi sembra di capire. Si tratta di mondi che si stanno separando e quindi anche di fronte a questa pandemia le reazioni sono diverse. C’è chi avverte maggiormente il tasso di spiritualità, riflette, prega, si interroga, e chi reagisce in modo laico pur dichiarandosi credente, cioè malgrado permanga in lui un sentimento religioso non interpreta necessariamente queste vicende alla luce di una lente, di una prospettiva di fede. A mio avviso questo aspetto emerge chiaramente, sta crescendo, anche nel modo di intendere il cristianesimo c’è un diverso linguaggio, un diverso alfabeto, una diversa lettura della realtà.
Mondi differenti dunque. Con i quali bisogna prefigurare un tipo di rapporto o di presenza o di attenzione pastorale diversa. Non è che ci sia un’assenza di domanda, ma in molti casi è una domanda che non ha più retroterra, troppo nella penombra cristiana o cattolica per essere coglibile. C’è un’area di credenti un po’ anonimi, che non staccano la spina del rapporto con la Chiesa ma hanno un segnale della fede molto debole. E che non si possono considerare prossimi all’altra metà dei credenti, perché mancano alcune condizioni di base, si hanno riferimenti culturali diversi. Credo che la Chiesa debba prendere consapevolezza di questo, non pensando che si tratti di cristiani un po’ sconnessi ma facilmente recuperabili. Non è così, qui si tratta di distanze da colmare o comunque di approcci differenti, esiste una domanda di senso verso la quale occorre ricalibrare il rapporto. E una comunità mediamente vecchia nel suo personale religioso e anche per certi aspetti un po’ burocratizzata può avere difficoltà a relazionarsi con un’istanza che cresce soprattutto a livello giovanile.