Chiesa

IL POETA. Conte: «Una terra di confine aperta al mondo»

Alessandro Zaccuri venerdì 15 febbraio 2013
​Le frontiere, da queste parti, sono dappertutto. «Con la Francia, anzitutto», comincia a elencare il poeta Giuseppe Conte, nativo di Imperia e da alcuni anni residente a Sanremo, dopo una prolungata e non casuale permanenza a Nizza. «Ma il confine c’è anche con l’Italia, in un certo senso – prosegue –. Negli anni Venti, quando da Genova si trasferì a Firenze, Montale ebbe appunto l’impressione di vivere, per la prima volta, in una città italiana».E poi c’è il mare.Mare e montagne, certo. In Liguria la pianura è come se non ci fosse e questo impedisce la stasi, invoglia al movimento, in prevalenza ascensionale.La geografia conta.Ma anche la storia. Il passato glorioso della Repubblica marinara è andato di pari passo con il costituirsi con una cultura di indipendente fierezza. Non per niente furono liguri le figure centrali del nostro Risorgimento, e cioè Mazzini e il “marinaio” Garibaldi. Una tradizione fortissima, che però nasconde un elemento negativo.Quale?Una volta tramontata l’egemonia di Genova, l’indipendenza si è lentamente trasformata in isolamento, generando una sensazione di decadenza e marginalità che, purtroppo, caratterizza ancora la regione.Non pecca di pessimismo?Non direi. Da ligure, amo molto la mia terra. Amo, in particolare, il carattere ligure e sono molto preoccupato dal fatto che i nostri tratti distintivi si stiano estinguendo.A che cosa si riferisce?All5 parsimonia e alla sobrietà, in primo luogo. Non mi riferisco allo stereotipo dell’avarizia, ma a un atteggiamento di rigore morale che induce a rifuggire dall’ostentazione e a coltivare la sapienza del non apparire. In Liguria anche i centri abitati obbediscono a questa regola non scritta: gli slarghi sono rari, le piazze quasi assenti, per conoscere davvero una città devi inoltrarti nei vicoli, dove le case stanno addossate le une alle altre. L’espansione, ancora una volta, è in senso verticale. Pochi lo ricordano, ma il primo grattacielo italiano fu costruito proprio a Genova.Parsimonia e sobrietà non dovrebbero essere virtù molto attuali, in questi tempi di crisi?Certamente. Mi pare che la Liguria, non diversamente dal resto del Paese, soffra di una mancanza di visione, che è anzitutto visione etica. Uno dei maggiori problemi della regione, per esempio, sta negli eccessi della speculazione edilizia, che hanno finito per produrre guasti anche in un settore decisivo come il turismo. Se ci si rifacesse a un’etica della sobrietà, ci si renderebbe conto che promuovere il territorio non significa affatto costruire l’ennesimo porticciolo, ma investire finalmente in una prospettiva più ampia, capace di intrecciare cultura e paesaggio, senza trascurare il patrimonio enogastronomico.Obiettivo ambizioso.La Liguria ha una lunga tradizione di cosmopolitismo. Se non vogliamo essere travolti dalla globalizzazione, dobbiamo riscoprire la lezione di Italo Calvino e di altri come lui, che hanno saputo parlare al mondo partendo da un’esperienza marcatamente locale.E la Chiesa?In Liguria ha sempre avuto due volti, uno principesco e l’altro popolare, complementari fra loro anche se talvolta in contrasto. In ogni caso, basta addentrarsi un po’ nell’entroterra per rendersi conto che non c’è paese, per quanto piccolo, che non abbia la sua chiesa svettante verso il cielo, simile a una nave in attesa di essere varata.