Cerignola. Renna: facciamo emergere le nostre potenzialità
C’è chi sostiene che per conoscere la realtà di Cerignola, bisogna visitare il «Museo del grano» che si trova nel palazzo Fornari sul Piano delle Fosse, cioè gli antichi silos, alcuni dei quali risalenti al XIV secolo, dove il grano stesso veniva custodito. Monsignor Luigi Renna, originario della vicina diocesi di Andria e da un anno e mezzo vescovo di Cerignola-Ascoli Satriano, è tra questi. E non solo per ragioni meramente storiche. «Quel Museo – sostiene – dice moltissimo non solo della vocazione agricola di questa terra, ma anche e soprattutto del suo futuro. Perché siamo sempre stati una zona di immigrazione. Ieri qui venivano i braccianti di tutta Italia, oggi gli immigrati dell’Est europeo e del Corno d’Africa. Non dobbiamo averne paura ». Le parole del giovane presule, 51 anni in gran parte passati a fare il rettore di Seminario, ad esempio ci introducono alla conoscenza della Cerignola odierna. Tra le sue indubbie potenzialità e i problemi di sempre: disoccupazione, caporalato, criminalità organizzata. Eppure monsignor Renna è fiducioso: «Vedo segni di rinascita che fanno ben sperare».
Dici Cerignola e pensi subito a un gigante del sindacalismo come Di Vittorio. Che cosa è rimasto oggi di quella stagione?
È vero, il ricordo di Di Vittorio è ancora molto vivo qui. Ma oggi la realtà è cambiata, l’attenzione ai diritti dei lavoratori si è estesa perché non riguarda solo la nostra gente (che soffre il male endemico della disoccupazione), ma anche gli immigrati che in molti casi sono sfruttati e vittime del caporalato o di salari non degni questo nome. Purtroppo la memoria del grande sindacalista rimane un po’ una bandiera lacera, anche perché è rimasta ingabbiata in una visione partitica che non riesce ad interpretare attualmente i bisogni di tutti. Dobbiamo andare oltre e riscoprire la profezia della Dottrina sociale della Chiesa.
La Chiesa locale può dare una mano?
Sì, soprattutto a superare il modello del 18 aprile 1948. Siamo in un’altra epoca, caratterizzata dalla frammentazione dei partiti, dalla fine delle ideologie e dalla nascita del populismo. Dunque la Chiesa ha il compito di promuovere il dialogo, di formare le coscienze dei laici e di offrire l’esempio di una carità operosa. Ritengo che da noi questo ruolo viene ampiamente riconosciuto.
Ci saranno iniziative particolari in questo ambito?
Per il 30° anniversario della visita di Giovanni Paolo II alla diocesi (25 maggio 1987, ndr) abbiamo istituito la Settimana sociale diocesana, a cadenza annuale. Papa Wojtyla ci lasciò un discorso che amo definire una piccola enciclica per i lavoratori. E proprio dal lavoro abbiamo cominciato perché la Settimana di quest’anno è incentrata come quella nazionale di Cagliari su temi come la grande piaga della disoccupazione, del lavoro sommerso, del caporalato, ma anche su uno sguardo al futuro. Con un agro così esteso, rinnovare l’agricoltura significa dare più lavoro. Pensi che un’area della nostra diocesi, in agro di Candela, produce le mele come la Val di Non. E recentemente sono rimasto allibito a vedere un campo di 36 ettari di prezzemolo, che fornisce tutto l’hinterland milanese. Quindi tante potenzialità, ma abbiamo bisogno di agricoltori che siano più imprenditori.
A proposito di caporalato, com’è la situazione?
Il problema c’è ed è presente in tutta la Puglia. La difficoltà più grande è farne prendere coscienza a lavoratori e imprenditori che si sono quasi assuefatti a questa mentalità. Noi denunciamo con forza che il caporalato da una parte è illegale e non rispettoso della dignità della persona, dall’altra è un sistema che non permette neanche lo sviluppo economico. Credo perciò che le associazioni dei lavoratori debbano fare un grande lavoro di coscientizzazione.
La diocesi ha messo in atto qualche contromisura?
L’Ufficio di pastorale sociale con la sua équipe da quest’anno ha cominciato a incontrare imprenditori e associazioni. E un work in progress verso il quale ho molta fiducia. Il Progetto Policoro può contribuire? Sicuramente. E in particolare abbiamo una sfida nella sfida: far sì che chi vive il dramma dell’abbandono scolastico (e qui a Cerignola purtroppo sono tanti) possa rientrare in un circuito virtuoso. I padri salesiani, ad esempio, hanno da circa 50 anni una scuola professionale e di recente hanno attivato un corso di trasformazione dei prodotti agricoli. Qualche settimana fa mi hanno donato la prima confezione di vini fatta dai ragazzi sottratti all’abbandono scolastico, che nella scuola “Monsignor Pafundi” hanno imparato a imbottigliare il vino.
Capitolo delinquenza più o meno organizzata. La preoccupano certi episodi per i quali Cerignola è andata di recente sui giornali?
Non posso non essere colpito per l’assalto a un pullman di linea o per le rapine agli automobilisti. Ma il grande problema è lo spaccio di droga. Le forze dell’ordine fanno un gran lavoro, ma purtroppo in tutta la Capitanata sono sottodimensionate. Noi dobbiamo prevenire, rilanciando gli oratori, facendo pastorale con i ragazzi e le loro famiglie, riducendo l’abbandono scolastico e integrando gli immigrati. Attualmente i più resistenti da questo punto di vista sono quelli che arrivano dall’Europa dell’Est. Tanti anni di regimi atei e sistemi economici assistenzialisti li hanno privati dei valori civili fondamentali. Sono violenti, si danno all’accattonaggio e c’è bisogno di aiutarli a recuperare la loro dignità.
Per questo la diocesi ha scelto come opera segno il Centro Bakhita?
Sì, il Centro sarà una sorgente di integrazione, nato tra l’altro dall’opera di una religiosa vincenziana, suor Paola Palmieri, che ogni mercoledì incontrava gli immigrati del Corno d’Africa, per offrir loro dei momenti di preghiera. Insieme con il direttore dell’Ufficio Migrantes, don Claudio Barboni, ci siamo resi conto che non serviva un semplice dormitorio, quanto una struttura che aiutasse a vivere lo sviluppo integrale.
Per tanti anni lei ha svolto il suo ministero in seminario. Come vede l’attenzione della Chiesa italiana alla formazione dei sacerdoti?
È sicuramente una priorità. Credo che dobbiamo distinguere tra formazione iniziale e permanente. E per quanto riguarda quella iniziale è bene unire le forze. Avere piccoli seminari con pochi formatori a metà tempo e con seminaristi che per buona parte della giornata sono fuori per lo studio è perdente. I numeri e la residenza non sono indifferenti. Avere una comunità consistente che permetta delle iniziative di ampio respiro, credo che sia una buona prassi da prendere in considerazione ovunque. Inoltre, quando ci si forma insieme, si gettano le basi anche per avere un presbiterio unito. Si consolidano relazioni, modi di pensare e anche prospettive pastorali. Quando invece ci si forma a destra e a manca non è la stessa cosa.
E per la formazione permanente?
Bisognerebbe osare di più. La formazione permanente non può essere limitata a qualche giorno di campo scuola con i preti giovani. Deve accompagnare tutte le età della vita e parlare al ministero dei sacerdoti, facendo sì che essi la sentano come appetibile e utile alla loro missione. Qui in diocesi, ad esempio, abbiamo cominciato a incontrarci mensilmente per dei laboratori sulle realtà pastorali che si incontrano nel ministero: accompagnamento dei figli dei divorziati risposati, elaborazione del lutto e vicinanza alle persone colpite dalla morte di un parente. È un’esperienza, ma ci potrebbero essere tante idee e iniziative.
La formazione può essere anche prevenzione di certe “devianze” che negli ultimi tempi hanno creato scandalo e sconcerto tra i fedeli?
Quella in Seminario certamente. In un tempo in cui sono venuti meno o quasi i Seminari minori, bisogna puntare sul periodo propedeutico e poi fare un grande discernimento nel periodo iniziale. E soprattutto bisogna avere il coraggio, da parte dei formatori e dei vescovi, di dire dei “no”. Perché determinate situazioni che possono apparire grigie negli anni di formazione finiscono per esplodere negli anni di ministero. Accanto a questo, bisogna essere consapevoli che i giovani sacerdoti vanno accompagnati ben oltre il periodo del seminario. Per formare un prete non bastano i sei anni di seminario. Ce ne vogliono almeno una decina di ministero.
CHI E'
Il vescovo Luigi Renna è nato a Corato, in provincia di Bari, il 23 gennaio 1966. La sua formazione verso il sacerdozio l’ha compiuta nel Seminario vescovile di Andria dal 1979 al 1984 e nel Pontificio Seminario Regionale pugliese di Molfetta dal 1984 al 1991. E proprio il 7 settembre 1991 viene ordinato prete dal vescovo di Andria, Raffaele Calabro, nella chiesa-madre di Minervino Murge. Mentre prosegue la propria formazione accademica è anche vicario parrocchiale della parrocchia del Santissimo Sacramento ad Andria dal 1991 al 1993. Nel 1993 inizia un lungo percorso che vedrà il Renna impegnato nel mondo del Seminario. Infatti dal 1993 al 1997 è vice-rettore del Seminario vescovile di Andria ed è nominato rettore il 28 agosto 1997. Incarico che ha mantenuto fino al 22 maggio 2009, quando diventa rettore del Pontificio Seminario Regionale Pugliese di Molfetta. Il 1 ottobre 2015 papa Francesco lo nomina vescovo di Cerignola-Ascoli Satriano. Viene consacrato vescovo il 2 gennaio 2016 ad Andria dall’arcivescovo di Bari-Bitonto, Francesco Cacucci, e prende possesso della sua diocesi il 16 gennaio successivo.