Ha un giorno di vita, il piccolo David, e ti fissa con gli occhi sgranati, ancora frastornato dalla sua venuta al mondo. Poi si attacca al seno di sua madre e, placido, si fa nutrire e cullare.
Fosse nato appena otto mesi fa, David, non sarebbe lì dove lo stiamo osservando. Il centro sanitario di Amadahome, a una ventina di minuti dal centro della capitale togolese Lomé, ha aperto i battenti solo a febbraio. Dire che se ne sentisse il bisogno, in una zona in cui è evidente la penuria di servizi sanitari di base, è poco. «Come facevano prima le donne incinte? Dovevano camminare per chilometri per raggiungere il centro più vicino, oppure, nella stragrande maggioranza dei casi, partorivano in casa con metodi inadeguati», sottolineano i responsabili del centro.
Da febbraio sono 144 i bambini nati qui. David, ultimo arrivato, è il numero 145. Molte di più, nell’arco di questi primi mesi, sono state le visite pre-natali, le vaccinazioni per uomini e donne, i test per l’Hiv, le ecografie, assicurate da uno staff di dodici persone.
A guidarlo, l’impegno delle suore di Notre Dame de la Trinité, congregazione di cui fanno parte 66 religiose, sostenute dal Gruppo Cariparma Crédit Agricole, che ha provveduto ai fondi per la costruzione e l’equipaggiamento del dispensario ed è impegnato dal 2005 con progetti in campo educativo e sanitario. Perché qui in Togo lo Stato fa quel che può (se può e, soprattutto, se vuole) ma spesso il sostegno a una popolazione che per il 70% vive di agricoltura di sussistenza è affidato a religiosi, Ong internazionali, donatori privati e poco altro.
Non ha petrolio, il Togo, non è sulle mappe delle grandi multinazionali. È una lunga striscia di terra incastonata nel Golfo di Guinea che si affida a caffè, cotone e cacao, prodotti ormai in balia dei mercati speculativi delle materie prime. Come in molte città africane, lungo le strade di Lomé è tutto un accatastarsi di banchetti con merce di ogni tipo. C’è chi vende piccoli oggetti di artigianato, stoffe variopinte, scarpe, semi o anche solo delle arachidi in bottiglie di vetro. Chi non ha a disposizione un pezzo di terra da coltivare è a questo piccolo commercio che deve affidare la speranza del suo pasto quotidiano. Le baracche fatiscenti ammassate l’una sull’altra, i tegami con cui all’esterno si cucina o si fa bollire l’acqua, raccontano di una vita di estrema precarietà. Le carreggiate sono il regno di centinaia di motorette smarmittate che fanno impazzire gli automobilisti e si fermano a far rifornimento da ragazzini che si improvvisano benzinai con qualche bottiglia di carburante trafugato al mercato nero.
«Lavoro, Libertà, Patria» è il motto inciso sullo stemma togolese. E se il lavoro è quel che è, anche la libertà non se la passa benissimo. «Sia il partito al governo che l’opposizione sono immobili e la stampa, senza grandi mezzi, non ha la possibilità di raccontare le cose come stanno – è l’opinione di un funzionario locale che chiede l’anonimato –. Il popolo vive in una situazione di miseria estrema, ma ora sta nascendo una grande spinta verso il cambiamento». Per strada la presenza dei militari e delle forze di sicurezza è abbastanza discreta, se si pensa che per il Togo gli osservatori parlano di autoritarismo, pur dalle sembianze democratiche. Perché è vero che Faure Gnassingbé è stato formalmente eletto nel maggio 2005 con una valanga di voti. Ma sia quelle elezioni che il golpe militare con il quale aveva preso il potere tre mesi prima, alla morte del padre Gnassingbé Eyadéma – dominus del Togo per 38 anni – sono tutt’altro che un modello di democrazia. Non mancarono, all’epoca, manifestazioni popolari congiore tro la dinastia al potere, ma furono presto soffocate nel sangue. Meno tese le presidenziali rivinte da Faure nel 2010, ma tuttora l’istituto americano Freedom House cataloga il Togo come Paese solo «parzialmente libero». «Eppure la situazione dal punto di vista politico e della libertà dei media sta migliorando – è l’opinione di monsignor Philippe Kpodzro, arcivescovo emerito di Lomé –. Il totalitarismo di un tempo sta lasciando spazio a maggiore libertà. Cruciale è la lotta all’analfabetismo, grazie alla quale il Paese può prendere coscienza di sé. Per questo la Chiesa ha voluto essere in prima linea in campo educativo».A Lomé i politici locali li vedi alla Messa della domenica mattina nella chiesa di San Francesco. Alle 8, quando il coro già intona il canto d’ingresso, arrivano gli ultimi alti dignitari dello Stato. Farsi vedere in chiesa, evidentemente, serve. E forse non è un caso se il sacerdote durante l’omelia esorta a «rifuggire il culto della personalità e del denaro». La funzione, di per sé, è una vera e propria festa dell’eucaristia. Non c’è passaggio chiave che non sia sottolineato dalla musica, garantita da una piccola banda di ottoni accompagnata da tastiere e batteria. L’offertorio dura un quarto d’ora: a turni uomini e donne, vestiti nei loro abiti migliori, sono invitati davanti all’altare a depositare le offerte a seconda del giorno della settimana in cui sono nati. Quanto raccolto andrà ai più poveri tra i poveri e così sono pochissimi quelli che restano al loro posto. Sono sanità e istruzione, oltre alla stessa sussistenza, i settori in cui c’è più bisogno. «Lo Stato dovrebbe farsi carico almeno delle cure d’urgenza – sottolinea suor Stella Matutina d’Almeida, che dopo gli studi di Medicina in Italia ora lavora qui da chirurgo in un ospedale regionale –. In chirurgia abbiamo moltissimi casi di ernia perché per la maggior parte i nostri pazienti sono contadini, nei bambini sono molti i casi di perforazioni intestinali da tifo. E per quanto riguarda l’istruzione, è vero che le scuole elementari sono gratuite ma molti genitori fanno fatica a comprare i libri o i quaderni».
Una povertà immensa, dunque, ma a Natale i genitori fanno grandi sforzi per soddisfare almeno in questo giorno i desideri dei bambini. «Qui i regali possibili sono un vestito nuovo realizzato a mano, un paio di scarpe e un pasto sufficiente per nutrirsi – sottolinea ancora monsignor Kpodzro –. Giocattoli i bambini non ne chiedono nemmeno, perché si guarda ai bisogni primari».
In mezzo a tante necessità non si fatica a credere che strutture come il centro sanitario di Amadahome diventino subito punti di riferimento per migliaia di persone. La zona, peraltro, è in piena espansione: «Tra due o tre anni il bacino d’utenza sarà molto maggiore – conferma suor Stella – per cui le necessità aumenteranno». Dà speranza, però, l’esistenza di un luogo sicuro al quale affidare la nascita del proprio figlio. Te lo conferma la lunga fila di donne che attendono, pazienti, per l’ecografia. Sono una ventina, in gran parte molto giovani e dai bei lineamenti. Poche settimane ancora e per le mamme sarà tempo di partorire. Nuovi David sono pronti a venire al mondo per farsi cullare dal loro abbraccio.