Intervista. Il cardinale O’Malley: la Chiesa negli Usa al lavoro per ritrovare l’unità
Il cardinale Sean O’Malley in una foto d'archivio
Nel 2020 sono state segnalate circa 4.200 nuove accuse di abusi da parte del clero americano. La maggior parte risalgono agli ultimi decenni, 22 sono recenti. Di queste ultime, sei sono state comprovate. Il dato, discusso dalla Conferenza episcopale Usa nel corso della sua plenaria d’autunno, è stato raccolto nel corso di un processo di auditing indipendente al quale tutte le parrocchie americane si sottopongono ogni anno per dimostrare che rispettano le azioni di protezione dell’infanzia stabilite nel 2002. Queste pratiche, sempre lo scorso anno, sono aumentate del 15%, con oltre 2,5 milioni di controlli sugli adulti che operano nelle parrocchie e corsi di formazione sugli abusi che hanno coinvolto 3,1 milioni di bambini.
Sono numeri che, a quasi vent’anni dall’adozione del protocollo per la protezione dei minori da parte della Conferenza episcopale Usa, fanno dire al cardinale Sean O’Malley che i segni di progresso nella prevenzione degli abusi sono molti. Ma che molto resta da fare. La visione dell’arcivescovo di Boston, già presidente della Pontificia Commissione per la tutela dei minori, esce dai confini americani per comprendere la Chiesa universale.
Cardinale O’Malley, pensa che la fiducia dei fedeli nella capacità della Chiesa di prevenire gli abusi sia stata ripristinata?
In molti posti sì, ma il livello varia da un luogo all’altro. Dove i protocolli sono stati messi in atto da più tempo c’è più fiducia, il che dimostra la loro utilità. Prima che fossero implementati, i vescovi hanno improvvisato le loro risposte alle accuse di abusi e hanno commesso errori che hanno creato molta sofferenza.
Che cosa resta da fare?
Riconosciamo l’importanza di aprire per primi il dialogo con la comunità delle vittime, senza aspettare che vengano a noi. Questo è fondamentale per offrire giustizia rispetto al passato e un senso di trasparenza. Ma è fondamentale rendere la Chiesa un luogo sicuro facendo i controlli di background e rimanendo vigili, promuovendo sempre la responsabilità e creando un clima di tolleranza zero per gli abusi. La Santa Sede ha chiesto a tutte le conferenze episcopali di presentare dei protocolli per la prevenzione degli abusi e per la gestione delle denunce. Tuttavia, alcune Chiese locali sono in ritardo e altre non hanno avuto successo nell’implementarli.
Perché?
Sono sforzi che richiedono tempo perché comportano un cambiamento della mentalità. Il Papa è molto ansioso che i vescovi mettano specifiche pratiche in atto, ma anche che creino una cultura di salvaguardia. E questo richiede uno sforzo educativo del clero che prende tempo. In molte parti del mondo inoltre la Chiesa ha poche risorse o è addirittura perseguitata e sente di avere priorità più urgenti. Ma l’impegno è così importante perché senza ritrovare la credibilità non ci sarà possibile svolgere la missione di evangelizzazione. I fedeli non crederanno all’autenticità del nostro messaggio.
Pensa che in questo i vescovi americani abbiano fatto da apripista?
La “carta” americana è stata un contributo alla Chiesa universale. Le misure che abbiamo implementato qui non potrebbero essere attuate subito ovunque. Quando si guarda allo sforzo di completa trasparenza, per esempio. Questo è stato l’ostacolo più grande. Ma l’esempio americano ha già avuto un grande effetto su ciò che stanno facendo altri Paesi.
Il nunzio Christophe Pierre in apertura della plenaria ha evidenziato divisioni all’interno della Chiesa americana. Pensa sia una preoccupazione fondata?
La plenaria è andata molto bene. Ho percepito uno sforzo di collegialità, di ricerca dell’unità. Sono molto contento che l’assemblea sia iniziata con una giornata di preghiera e di adorazione, che ha dato il tono giusto all’incontro. Il nunzio è stato molto eloquente nel promuovere l’unità tra i vescovi. Ha fornito la migliore spiegazione della sinodalità che abbia mai sentito. Viviamo in un tempo e in un Paese con una forte polarizzazione e la Chiesa non ne è immune. Dobbiamo continuare a lavorare per una migliore unità tra di noi, tra i vescovi e nella Chiesa.
Crede che il dibattito sul documento sulla coerenza eucaristica abbia portato alla luce una certa intrusione della politica nell’episcopato americano?
Penso che i vescovi stiano facendo uno sforzo di parlare a una sola voce. Dopo questa plenaria sono moderatamente ottimista sul fatto che saremo in grado di tenere a bada la politica e di ripristinare l’unità.