In carcere da educatori. Per rispondere a una vocazione che da sempre caratterizza i cappellani dell’ambiente penitenziario, ma anche per far proprio l’impegno di tutta la Chiesa italiana in questo decennio. Si è conclusa con questa rinnovata consapevolezza la riunione del Consiglio pastorale nazionale dei cappellani delle carceri, svoltasi a Roma nell’Istituto "Maria Bambina". Una riunione centrata soprattutto sul tema «Educazione: senso della nostra presenza in carcere» (proprio in riferimento agli Orientamenti pastorali della Chiesa italiana di recente pubblicazione), ma nella quale sono stati esaminati anche argomenti di grande attualità nel mondo carcerario, come l’attuazione del Piano carceri, oggetto di una relazione di Emilio Di Somma, vice capo vicario del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria.«Abbiamo scelto questo tema – ha sottolineato, monsignor Giorgio Caniato, ispettore generale dei cappellani – perché la nostra azione, accanto ai detenuti e al personale è sempre stata e sempre sarà un’azione educativa». In un decennio dedicato all’educazione, dunque, «tale consapevolezza non può che essere accresciuta e stimolata e perciò ci sembrava opportuno riflettere sul testo appena uscito».A guidare la riflessione dei sacerdoti e dei religiosi che operano in questo particolare ambito è stato monsignor Domenico Sigalini, vescovo di Palestrina e Assistente generale dell’Azione cattolica. Il presule, anche in base alla propria esperienza di assistenza spirituale al "supercarcere" di Paliano (Frosinone), ha fatto notare: «I detenuti rispetto al discorso dell’educazione vengono da un grosso fallimento di attenzione, di cura e di compagnia. Spesso nella loro vita è mancata la compagnia educativa nell’età evolutiva o è stata soffocata da passioni o situazioni esterne che ne hanno azzerato se non del tutto cancellato la traccia». Si presentano allora, ha aggiunto monsignor Sigalini, «due grandi prospettive che gli Orientamenti pastorali di questo decennio ci possono aiutare a perseguire». Da una parte «un percorso di educazione per sé, con un paziente lavoro di ricostruzione degli ideali di vita, di riconquista del senso vero della libertà, di riconciliazione, di pacificazione dell’animo». Dall’altra «un percorso di attenzione alle proprie responsabilità che ancora esercitano nelle loro relazioni familiari, sociali, matrimoniali, di gruppo carcerario».Ad ogni modo, educare è un compito indispensabile anche di fronte a vicende personali che sembrano irrimediabilmente perdute. Di qui l’incoraggiamento del vescovo ai cappellani a «offrirsi come la simpatia di Dio per i detenuti». «Educare è una azione bella e entusiasmante – ha aggiunto –; quando ti relazioni con le persone e le vedi aprirsi a valori nuovi, a ideali belli, cogli la gioia negli occhi perché gli si allarga la vita, gli si aprono orizzonti nuovi».Sulla stessa lunghezza d’onda anche monsignor Caniato: «Siamo chiamati ad assistere l’uomo detenuto senza pregiudizi e senza distinzioni di razza, nazionalità, religione, lingua. L’unica mira che dobbiamo perseguire è quella di aiutarli a ricostruire le loro vite, più che sia possibile. E il Vangelo ci dice che per tutti c’è sempre una nuova possibilità». Monsignor Caniato non dimentica neanche il personale delle carceri. «Siamo lì anche per loro, per sostenerli in un compito che spesso è difficile e ingrato e non fa notizia». Insomma il bene può sbocciare anche dietro le sbarre. «In tanti anni – conclude l’Ispettore dei cappellani – posso testimoniare di aver visto molte belle storie di rinascita personale». Proprio lì dove meno te lo aspetti.