INTERVISTA. Il canonista Arroba: «Un gesto di servizio»
Professore, che significato ha questo canone?
Va detto che quello del Romano Pontefice, da un punto di vista strettamente giuridico, è configurato come un ufficio ecclesiastico. E per ogni ufficio, da quello del parroco a quello «supremo» del Papa, è prevista la rinuncia. Tale possibilità s’inserisce non in una logica di potere ma di responsabilità nei confronti della missione legata all’ufficio stesso. Chi viene nominato a un ufficio, infatti, è al servizio della missione affidatagli, non viceversa, e ne risponde davanti a Dio.
Meglio usare quindi il termine «rinuncia» e non «dimissioni»?
Direi che il termine «rinuncia» da un punto di vista canonico è più corretto. Esprime la presa di coscienza che non si è nelle condizioni di svolgere adeguatamente il compito affidato. D’altra parte nel Codice di diritto canonico, meglio che in altre realtà, è chiaramente espresso il fatto che gli uffici – anche il più elevato come quello del Papa – non esistono per se stessi ma per la cura delle anime. Così per tutti gli uffici, oltre al modo di assumere un incarico – nel caso del Pontefice attraverso l’elezione da parte dei cardinali con successiva accettazione dell’eletto –, sono previsti anche i modi di perderlo. Tra questi modi si annovera la rinuncia. Questo risponde anche a due dati del contesto attuale: l’allungamento della vita, non sempre con un corrispondente «vigore», e l’aumento delle sfide poste in modo immediato a chi svolge l’ufficio personale di guida suprema della Chiesa.
Ma l’«ufficio del Papa» prevede
condizioni particolari per la rinuncia?
Come per tutti gli uffici ecclesiastici la rinuncia, come atto giuridico, deve essere compiuta attraverso un atto libero e nel pieno delle proprie capacità. A differenza degli altri uffici, però, la rinuncia del Papa non richiede l’accettazione da parte del superiore, essendo quella del Pontefice l’autorità suprema. E poi essa deve essere «debitamente manifestata», cioè deve essere pubblica.
Ratzinger ha scelto un Concistoro per l’annuncio. Poteva farlo anche in un altro contesto?
Certo. Nel diritto la richiesta di una manifestazione pubblica della rinuncia – che non può restare una decisione privata – non è tradotta in una formalità concreta.
L’annuncio di ieri ha qualche effetto giuridico immediato?
L’unico effetto è che dal 28 febbraio alle ore 20 si passerà da una situazione di «Sede piena» a una di «Sede vacante» con tutte le conseguenze giuridiche. Non esistono situazioni «intermedie » e questo per garantire la normalità dello svolgersi della vita della Chiesa. Il ministero petrino, infatti, è centrale per la Chiesa ma non è il centro, che rimane Cristo. A regolare la situazione di sede vacante, poi, è la Costituzione apostolica «Universi Dominici gregis» di Giovanni Paolo II.
Le norme per questo Conclave, quindi, saranno le stesse di quello del 2005?
Sì, tranne per un punto: Benedetto XVI, infatti, ha modificato le norme, laddove permettevano dopo i primi tre giorni e altre 21 votazioni di eleggere il Pontefice con la sola maggioranza assoluta (il 50 per cento più uno) dei voti. Ora saranno sempre necessari i due terzi dei voti. Questo perché la scelta del Pontefice dev’essere il più possibile fondata sulla comunione di tutta la Chiesa universale, rappresentata dai cardinali in Conclave.
Rispetto al caso della morte del Pontefice le procedure per la convocazione del Conclave sono diverse?
No, sono le stesse. Dal momento in cui ci sarà la sede vacante si potranno avviare le procedure per l’elezione e il primo atto sarà la convocazione delle Congregazioni generali di tutti i cardinali. Queste dovranno essere almeno tre: nella prima i porporati giureranno mentre nelle due successive ascolteranno due meditazioni. Questo per garantire che l’elezione del Pontefice avvenga dopo un preciso percorso di discernimento.