La Perdonanza all'Aquila. Bassetti: una casa dignitosa per tutti, italiani e stranieri
Il cardinale Gualtiero Bassetti (a sinistra) con l’arcivescovo Petrocchi nella visita di ieri all’Aquila
A quella porta ci si avvicina con il capo chino. Il perdono va vissuto, ricevuto e dato con intensità, perché varcare quell’uscio sia davvero il simbolo di pace per eccellenza. Trombe e tamburi annunciano l’arrivo del corteo storico nella Basilica aquilana di Collemaggio. Sfilano uno dopo l’altro i quasi mille figuranti che accompagnano Giorgia, la dama della Bolla, e il Giovin Signore Davide con il ramoscello d’ulivo.
Gesti che si ripetono da 723 anni immutati, quest’anno però pensando alle vicine terre di Lazio, Umbria e Marche, compagne nel dramma delle scosse e nella speranza di ricostruire. Il sole è quasi calato quando il presidente della Cei, il cardinale Gualtiero Bassetti, bussa per tre volte sulla Porta Santa. È il gesto che segna l’inizio della Perdonanza e indica la sua spiegazione poco prima nella celebrazione eucaristica. «La porta vera, quella attraverso la quale ognuno di noi deve e può passare per avere perdono e salvezza: Gesù Cristo. Egli è la porta gloriosa e santa che conduce al Padre, la porta sull’eternità!». È dunque questo il fulcro della festa del perdono, voluta da Celestino V nel 1294 per il capoluogo d’Abruzzo.
San Pietro Celestino capì che preghiera e penitenza sono la via per comprendere il senso della vita umana. Senza dimenticare, continua il porporato, che «l’indulgenza, il perdono del Signore, ci aiuta a varcare quella porta che Gesù spalanca per noi dall’alto della croce». E lo fa in molti modi. «Il primo è la misericordia», aggiunge, perché la porta del paradiso «si apre nel momento in cui perdona i peccati di coloro che si rivolgono a lui, ma soprattutto nel momento in cui Egli muore per i nostri peccati». Il secondo «è stato quando ha accolto i più bisognosi. Non solo i peccatori, ma gli ammalati e gli esclusi».
Ecco perché anche noi siamo chiamati a non rimanere sulla soglia, ad essere «comunità in uscita», a «spalancare le porte del cuore» e varcare insieme agli “sconfitti nella vita” la porta della sua misericordia. In loro in verità, ripete il cardinale Bassetti, «vediamo riflesso il volto di Cristo sulla croce». Da qui la necessità di ribadire «il sacrosanto principio cristiano di salvaguardare sempre l’incalpestabile dignità di ogni persona umana» a cui non si può mai negare una cura premurosa e un ricovero dignitoso, «sia che si tratti di cittadini italiani che di migranti». Carità che si pratica «non per ideologia, ma per ispirazione schiettamente evangelica». Ognuno è «pietra preziosa» nella mani di Gesù e all’interno della Chiesa, nel processo di ricostruzione.
L’Aquila dal 2009 è difatti una città con le crepe – prima tappa della viaggio del presidente della Cei nelle zone terremotate – ha «ferite ancora sanguinanti», le definisce il cardinale dopo aver visitato in mattinata il Duomo e la Cappella della memoria in centro storico, esprimendo «con semplicità, ma con sincera partecipazione, la vicinanza di tutta la Chiesa italiana alla popolazione». In questo giorno perciò la preghiera è per questa terra, perché «non possa mai perdere la speranza e, soprattutto, possa conoscere presto il giorno della sua completa risurrezione, superando lentezze e incertezze che producono ancora sofferenze». Una preghiera che, come un abbraccio, s’allarga alle popolazioni del Centro Italia colpite dal sisma nel 2016 che il cardinale vedrà domani e dopodomani, e agli abitanti di Ischia.
Così davanti a Collemaggio, si vuole «gettare le nostre sofferenze, i nostri limiti e il nostro peccato nelle mani del Padre – è il messaggio del presidente della Cei – per ricevere da Lui pace, perdono e speranza di un tempo nuovo». Al suo fianco sull’altare l’arcivescovo eletto di Ancona-Osimo, Angelo Spina, il vescovo di Isernia-Venafro, Camillo Cibotti, il pastore emerito della città, Giuseppe Molinari, il nunzio apostolico emerito Orlando Antonini e l’arcivescovo de L’Aquila, Giuseppe Petrocchi, che in questi giorni ha paragonato il perdono «a un fuoco virtuoso che brucia le scorie e il ciarpame che si depositano negli spazi della nostra interiorità», rendendoci «liberi di pensare secondo il Vangelo e di rapportarci con una carità che sa fare il bene».