L'assemblea. «Azione Cattolica, seme di speranza. Dalla pandemia usciremo differenti»
La Chiesa, il futuro, la crisi: Matteo Truffelli, presidente dell’associazione laicale cristiana più diffusa e radicata nel nostro Paese, riflette sui temi dell’assemblea nazionale elettiva che inizia domenica 25 aprile
Che la più radicata ed estesa associazione del laicato cattolico italiano si riunisca in assemblea (la 17esima nazionale, da domenica 25 aprile al 2 maggio, in modalità online) non deve far pensare a un appuntamento a esclusivo uso interno. Parliamo dell’Azione Cattolica, 271mila soci in tutte le diocesi del Paese, un milione di italiani che ne frequentano le proposte di fede e di impegno, 800 delegati all’evento assembleare chiamato a riflettere sui temi della cittadinanza e della fraternità (tema «Ho un popolo numeroso in questa città», di evocazione biblica), con l’udienza del Papa il 30 aprile. Ciò che ha saputo mettere in campo nelle migliaia di parrocchie dov’è presente, come le idee che elabora sulla Chiesa e il futuro, interessano dunque tutti i cattolici, e non solo. Come si comprende dalle riflessioni del presidente Matteo Truffelli, ai saluti dopo 7 anni di mandato (uno supplementare per il rinvio dell’assemblea causa pandemia), con la nomina del successore che concluderà il percorso di rinnovo delle cariche direttive al via nei prossimi giorni.
Presidente, in questo anno di pandemia come ha visto l’Azione Cattolica, messa alla prova dalla pandemia come tutta la società?
Può suonare strano, ma la verità è che anche io sono stato sorpreso dalla capacità di tenuta che l’associazione ha dimostrato nei mesi passati. Ci sono stati momenti di incertezza e di difficoltà, naturalmente, tanto più che la pandemia è scoppiata proprio mentre eravamo in pieno percorso assembleare, quindi abbiamo dovuto prendere decisioni non facili anche da questo punto di vista, in un contesto nel quale si poteva solo navigare a vista. Ma devo dire che gran parte delle associazioni diocesane ha saputo calarsi dentro la situazione con saggezza, coraggio e creatività. Reinventando forme e strumenti per far proseguire la vita associativa, ma soprattutto dando vita a una pluralità di iniziative con cui farsi vicina a chi aveva bisogno e a chi era più solo. Al tempo stesso, dentro il corpo dell’associazione si è sviluppato fin dal primo momento un tentativo corale di leggere in profondità quello che questa crisi ha da dirci, come cittadini e come credenti.
Siciliani
Cosa avete imparato dalla dura esperienza di questi mesi per il futuro immediato dell’associazione?
Il valore che possono avere, anche in una realtà grande e strutturata come la nostra, semplici gesti di vicinanza, di condivisione, di solidarietà. L’importanza di custodire la nostalgia per la preghiera comunitaria, vissuta spalla a spalla, ma anche di accompagnare le persone a coltivare la preghiera personale e familiare. La consapevolezza che gli strumenti digitali, se ne facciamo un uso critico ed equilibrato, possono essere una bella risorsa, anche per una realtà come la nostra fondata sui legami. E poi, direi, un senso di docilità allo Spirito, che ci deve portare a confidare meno nei nostri programmi, nelle nostre iniziative, per abitare in maniera più significativa la povertà, la precarietà e la fragilità.
Questa assemblea segna anche la conclusione del suo mandato: che "consegne" lascia a chi le succederà?
Più che una consegna, un augurio, che è anche una certezza: che l’Ac continuerà a camminare nel solco dell’Evangelii gaudium, come abbiamo provato a fare in questi anni.
La sua presidenza è coincisa quasi completamente col pontificato di papa Francesco. Cos’ha insegnato in particolare al laicato cattolico?
Difficile riassumerlo in poche frasi. Innanzitutto il valore di una fede profondamente incarnata nell’esistenza non solo personale ma del mondo, di quel popolo grande di cui siamo parte. E dunque la grande responsabilità che abbiamo di fronte alla «sfida di sognare e pensare ad un’altra umanità», come dice la Fratelli tutti. E poi la consapevolezza del contributo decisivo che il laicato può e deve portare per far maturare dentro la comunità ecclesiale un senso autentico di sinodalità.
Complice la pandemia, si assiste nelle parrocchie a un certo scollamento della partecipazione e della stessa vita comunitaria. Cosa ne pensa?
Almeno in parte si tratta di un fatto passeggero. Penso ai tantissimi ragazzi dell’Acr, che forse quest’anno non hanno potuto godere pienamente della vita associativa perché molte attività parrocchiali sono sospese, ma che non vedono l’ora di tornare a incontrarsi e camminare insieme. Per il resto, più che il segnale di un dato inedito dovuto alla pandemia, il fatto che si registri uno scollamento mi sembra un’indicazione che invita a riflettere attentamente sull’adeguatezza dell’esperienza comunitaria che le persone sperimentavano prima della pandemia, e sul modello di vita di fede che era proposta loro.
Più di un osservatore della vita ecclesiale si dice convinto che i cattolici italiani siano sempre meno rilevanti, in quanto tali, nella vita pubblica. Qual è il suo giudizio?
Se per rilevanza si intende la presenza di cattolici in ruoli importanti, non penso si possa proprio dire sia così. A livello nazionale si potrebbero fare molti nomi. Personalmente conosco anche i nomi di centinaia di amministratori locali, aderenti all’Ac, che si spendono ogni giorno per il bene comune. Se invece con rilevanza si intende l’occupazione di uno spazio politico, utile a influenzare le scelte, mi domando se sia ciò di cui veramente l’Italia ha bisogno. Infine, se si intende la difficoltà a elaborare idee buone per il Paese e raccogliere consenso attorno a esse, traducendo in proposte politiche il grande patrimonio di persone e valori che il cattolicesimo italiano è ancora capace di generare, allora credo ci sia realmente una riflessione seria da fare in merito.
Qual è il profilo e il ruolo che la Chiesa italiana dovrebbe assumere nel Paese in questa fase storica? A cosa è attesa?
Con molta semplicità, penso che oggi alla Chiesa italiana sia chiesto innanzitutto di seminare speranza. Farsi prossima alle persone per aiutarle a stare dentro questo tempo difficile, a confidare nel Signore, a fare di questa crisi un passaggio per ripensare che tipo di società vogliamo essere. Per questo credo sia importantissimo riprendere l’invito che ci è stato rivolto da Francesco al Convegno ecclesiale di Firenze, nel 2015, quando ha chiesto alla Chiesa italiana di farsi «fermento di dialogo, di incontro, di unità» dentro il Paese. Infine, sul piano più strettamente pastorale, se si può dir così, credo sia importante non accontentarci di tornare a fare quello che facevamo prima, come lo facevamo prima. La pandemia rappresenta un passaggio, occorre uscirne differenti.
Sul piano personale, cosa porta con sé di questi 7 anni alla guida di Ac?
Un senso enorme di gratitudine. Per le tante persone incontrate, per le innumerevoli pagine di Chiesa bellissima che ho vissuto, e per l’affetto che io e mia moglie abbiamo ricevuto. La gioia di aver vissuto un’esperienza di fraternità autentica con coloro con i quali ho condiviso la responsabilità. E la convinzione che sia stata l’associazione a guidare me, non il contrario.