Dibattito. Nessuna resa dei conti al Pontificio istituto Giovanni Paolo II
Papa Francesco e l’arcivescovo Paglia al «Giovanni Paolo II» in una foto di archivio (Vatican Media)
Fa ancora discutere l’annuncio dei vertici del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II secondo cui non saranno rinnovati gli incarichi a due degli ordinari. Le ragioni della decisione al di là degli aspetti imposti dal diritto canonico e dalla prassi accademica
LA LETTERA
«Le nostre argomentazioni secondo il naturale dibattito teologico. Il Magistero non ha mai condannato la possibilità di discutere»
Signor direttore, in data 30 luglio 2019, il suo quotidiano pubblicava un articolo di Luciano Moia, relativo ai fatti recentemente accaduti al Pontificio Istituto Teologico “Giovanni Paolo II”, in cui si imputavano ai professori licenziati «attacchi» sleali a papa Francesco, in contraddizione agli onori e agli oneri di un incarico in un istituto pontificio, nonché allo stipendio ivi percepito. In merito rendo noto che a nessuno dei professori licenziati il Gran Cancelliere, monsignor Vincenzo Paglia, ha potuto addurre come motivazione del provvedimento presunti attacchi a papa Francesco. Gli studenti possono confermare il rispetto e la fedeltà dei professori al Magistero della Chiesa e a quello del Pontefice regnante, al quale rinnoviamo filiale rispetto e obbedienza cordiale, come Successore di Pietro. La colpa di cui ci accusa Moia è quella di «minimizzare la portata della svolta voluta da papa Francesco». Soppesata la vaghezza di tale espressione, ci preme sottolineare come l’argomento già appartiene al naturale dibattito in ambito teologico e pastorale, nel quale l’ermeneutica del rinnovamento nella continuità con la Tradizione è criterio, fino ad oggi, mai condannato e mai ritrattato dal Magistero. Questo a doverosa tutela del “buon nome” dei professori vittime del provvedimento e ora anche di calunnia, ma soprattutto a tutela della “libertà dei figli di Dio”. Tra questi rientrano anche i teologi, che non sono solo dottori o scribacchini di corte, banderuole che inseguono i capricci del vento, né tantomeno maître à penser stipendiati per esprimere opinioni di altri; stipendio di cui peraltro ora alcuni sono privati con motivazioni che giudichiamo infondate e gravemente lesive della nostra dignità. Mi permetta infine di far presente che la diffamazione è non solo un grave peccato, contro cui papa Francesco si è più volte scagliato, ma anche un reato penalmente perseguibile. Distinti saluti
Livio Melina firmano anche: José Noriega, Stanislaw Grygiel, Monika Grygiel, Vittorina Marini, Przemyslaw Kwiatkowski, Jaroslaw Kupczak.LA RISPOSTA DI AVVENIRE
Sono grato per questa lettera di Livio Melina che alcuni altri professori firmano con lui. Il nostro Direttore me l’ha girata chiedendomi di rispondere e io sono lieto di farlo, perché mi offre la preziosa opportunità di entrare nel merito di quell’operazione finalizzata a «minimizzare la portata della svolta voluta da papa Francesco» sul tema della famiglia di cui ho dato succintamente conto lo scorso 30 luglio e che nella lettera viene negato con qualche veemenza. Ricordo, a beneficio dei lettori, che quella «svolta » non fu la scelta stravagante di un momento o una decisione solitaria, ma il frutto di una lunga stagione sinodale che, tra il 2014 e il 2016, ha coinvolto il popolo di Dio in due consultazioni universali e poi ha visto due Assemblee generali dei vescovi del mondo a cui hanno preso i rappresentanti di tutte le Conferenze episcopali. Due Sinodi sullo stesso argomento a distanza di un anno uno dall’altro, ricordate? Non era mai capitato prima. Forse il segno che papa Francesco ci teneva, almeno un po’.
La Chiesa universale ha partecipato, sostenuto e approvato quella «svolta» maturata sub Petro e cum Petroe che è sfociata in due Relazioni finali (Sinodo straordinario 2014, Sinodo ordinario 2015) il cui testo per l’87% si ritrova in Amoris laetitia. Anche questo porta a concludere che nell’Esortazione postsinodale del Papa ci sia anche la speranza, la saggezza e l’attesa della Chiesa intera, di quanti – da cattolici – sono in comunione con lui. Ebbene, di fronte a questa gigantesca operazione, indispensabile secondo il Papa per curare le ferite aperte e ridare slancio a famiglia e matrimonio, quale è stata la risposta di alcuni rappresentanti dell’Istituto “Giovanni Paolo II”? Leggiamo – tra i tanti testi a cui potremmo attingere – “Costruire sulla roccia. Chiavi di lettura dell’esortazione postsinodale Amoris leatitia, in Quale pastorale familiare dopo Amoris laetitia” (Cantagalli, 2016). Curatore (ed), Livio Melina. Il testo raccoglie gli atti del seminario di formazione organizzato dallo stesso Istituto il 23 maggio 2016, poco più di un mese dopo la pubblicazione dell’Esortazione che vide la luce il 9 aprile. Quindi un appuntamento per spiegare agli studenti cosa mai fosse questo nuovo testo del magistero pontificio. Ebbene, i saggi presenti sono organizzati per demolire i tanti spunti di originalità presenti in Al. Partiamo dal principio di gradualità che, secondo quanto scrive Melina a pagina 17 dev’essere interpretato «secondo quanto insegnato da Familiaris consortio (n.32) e da Veritatis splendor, che è un’enciclica con intento esplicitamente dottrinale e che quindi ha un rango magisteriale superiore rispetto a una semplice esortazione di natura pastorale». Non si bene da dove nasca la convinzione che la dottrina (la legge) venga prima della pastorale (l’uomo). Non certo dal Vangelo dove si dice che «il sabato è stato fatto per l’uomo, non l’uomo per il sabato» (Mc, 2, 23-28). Ma andiamo avanti. A pagina 19 si affronta il tema della comunione ai divorziati risposati. Secondo Melina da nessuna parte in Amoris laetitia si apre la strada a questa possibilità. Per evitare di cadere in contraddizione ignora di prendere in esame le note 336 e 351 – parte integrante del testo – e conclude: «Pertanto va detto con chiarezza che anche dopo Amoris laetitia, ammettere alla comunione i divorziati “risposati”, al di fuori delle situazioni previste da Familiaris consortio 84 e da Sacramentum caritatis 29, va contro la disciplina della Chiesa e insegnare che è possibile ammettere alla comunione i divorziati “risposati”, al di là di questi criteri, va contro il Magistero della Chiesa».
Ma come? Due Sinodi hanno tracciato una via caritatis per verificare la possibilità di integrare nella vita cristiana anche situazioni “irregolari” attraverso il discernimento ecclesiale. Il Papa ha ribadito nella nota 351 di Al quanto già detto in Eg 47, e che cioè «l’Eucaristia non è premio per i perfetti, ma generoso rimedio e un alimento per i deboli», e si ha il coraggio di definire queste affermazioni come contrarie al Magistero della Chiesa? Un teologo corregge due Sinodi e il Papa? Prendiamone atto e, tralasciando per ragioni di spazio, altre decine di “revisioni” e di ridimensionamenti della dottrina di Al, passiamo a un altro testo scritto da docenti del “Giovanni Paolo II”. Si tratta di “ Amoris laetitia, accompagnare, discernere, integrare” (Cantagalli, 2016) scritto da J.Granados, S.Kampowskj, J.J.Perez-Soba. La tesi di fondo è che un testo magisteriale è valido solo se si pone in continuità con il magistero precedente: «Quando in Amoris laetitia, appare un testo ambiguo o discusso, l’unica interpretazione valida è quella che consiste nel leggerlo in continuità con il magistero precedente». Quindi, in Al ci sarebbero passaggi «ambigui e discussi», valutazione non propriamente benevola nei confronti del Papa. E se un testo viene giudicato «ambiguo e discusso» (ma chi sarebbero i giudici di questa operazione?) può essere messo a confronto con il magistero precedente per ridimensionarlo. Bocciato anche il contenuto della nota 351 che è «molto generale». Secondo gli autori «non può essere riferita al caso dei divorziati risposati civilmente, per cui esiste un magistero molto chiaro, che serve da guida per chiarire ogni dubbio » (pagg. 114-115). Quindi, per capirci, il Papa avrebbe inserito una nota al posto sbagliato. Peccato che al paragrafo 305 (in cui la nota è appunto inserita) si parli proprio delle situazioni matrimoniali «irregolari ». E, a proposito del magistero precedente che escluderebbe questa possibilità, non si prende neppure in considerazione che quella prospettata da Francesco, piuttosto che una novità nella dottrina, sia un coerente sviluppo della sua comprensione. D’altra parte, come si evince in tutto il testo, ci sarebbe un magistero di serie A (quello precedente) e uno di serie B (quello di Amoris laetitia). Altro esempio. Questa volta attingo dalla vasta produzione di Stanislaw Grygiel che il 26 maggio 2016 tenta di spiegare a sua volta il significato di Amoris laetitia.
Lo fa in un articolo pubblicato sul Foglio, dove attraverso una lunga serie di metafore bibliche vorrebbe far passare l’idea che l’Esortazione postsinodale sia un esperimento fallito vista l’impossibilità di coniugare il discernimento dei casi concreti con il compito della Chiesa di predicare la Verità. Due soli passaggi del ponderoso testo: «Amoris laetitia ci costringe a una profonda riflessione sulla fede, sulla speranza e sull’amore, cioè dono della libertà ricevuto da Dio, poiché essa stessa non porta un chiaro messaggio riguardo al “dono di Dio” che sono la verità, il bene, la libertà e la misericordia». Traduzione: su verità, bene, libertà e misericordia il messaggio di Al non è chiaro e apre la strada ad alcuni «nostri pastori e arcipastori » che, prosegue Grygiel, «propongono una casistica “sì, ma” che prende in considerazione non tanto la coscienza dell’uomo, quando la sua inclinazione al male. Se si dovesse andare avanti così, c’è da aspettarsi che a breve seguirà il caos, in cui le persone soggette all’inclinazione al male andranno in giro per le parrocchie e perfino per le diocesi in cerca dei casuisti più furbi». Ecco, secondo l’anziano docente, dove porterebbe Amoris laetitia. Ce ne sarebbe abbastanza per sostenere le ragioni del riferimento al tentativo di «minimizzare la portata della svolta voluta da papa Francesco». Ma, visto che si parla addirittura di «calunnia» e «diffamazione » per aver scritto di «spiacevoli attacchi», sembra giusto ricordare un altro episodio. Il 3 dicembre 2018, Livio Melina interviene alla presentazione del volume postumo del cardinale Carlo Caffara (“Etica, famiglia e vita 2009-2017”) di cui è il curatore, e tra l’altro osserva: «...il cardinale Carlo Caffarra, che per uno strano destino è morto il 6 settembre 2017, solo un giorno prima dell’uscita del motu proprio con cui il Papa avrebbe fatto cessare l’Istituto “Giovanni Paolo II” che lui aveva visto nascere, quasi a significare che il Signore gli abbia voluto risparmiare di vedere “questa cosa”». Si dovrebbero considerare queste espressioni come una manifestazione di «filiale rispetto e obbedienza cordiale» al successore di Pietro, come scrive monsignor Melina nella sua lettera? La decisione di papa Francesco diventa, con sottolineatura tra il sarcastico e lo spregevole, «questa cosa». E si rende quasi grazie per il fatto che una persona sia morta prima di vedere realizzato l’indirizzo impresso da un Papa? Mi spiace davvero di essere costretto a darne amaramente conto ai lettori di Avvenire.