La storia. Perché Frassati sarà santo (anche) grazie a papa Paolo VI
Pier Giorgio Frassati e Paolo VI
Con il riconoscimento del miracolo avvenuto per intercessione del beato Pier Giorgio Frassati giunge a compimento il percorso che, in occasione del Giubileo dei giovani, dichiarerà santo il giovane studente torinese, cento anni dopo la sua prematura scomparsa, avvenuta il 4 luglio del 1925 a causa di una poliomielite fulminante, probabilmente contratta durante il servizio volontariamente prestato ai bisognosi.
Fu Paolo VI, nel gennaio 1977, a favorire la ripresa e il proseguimento della causa di beatificazione e canonizzazione di Frassati, rispondendo alle sollecitazioni dell’episcopato piemontese e alle richieste presentate in tal senso da molti esponenti dell’associazionismo cattolico. Anche se non lo aveva conosciuto personalmente pur essendo quasi suo coetaneo – il futuro Pontefice aveva solo quattro anni più di Frassati, che era nato a Torino il 6 aprile 1901 – Montini condivise con lui la comune appartenenza alla Federazione universitaria cattolica italiana (Fuci) nella prima metà degli anni Venti del secolo scorso.
L’associazione cattolica studentesca era allora federata in circoli e fu guidata e coesa, per un quindicennio, dall’assistente ecclesiastico generale monsignor Giandomenico Pini che per Frassati, militante nel circolo fucino di Torino intitolato a “Cesare Balbo”, divenne una importante figura di riferimento. Una lettera del settembre 1923, custodita tra le carte di monsignor Pini, ci rivela la naturalezza con la quale Frassati, studente al Politecnico di Torino nella facoltà di ingegneria (scelta “per poter più servire Cristo tra i minatori”), riusciva a coniugare quotidianamente l’impegno universitario con la pratica religiosa e la cura prestata assiduamente ai poveri e agli emarginati della sua città, coinvolgendo in quest’opera diversi suoi amici della Fuci. Cresciuto in una famiglia dell’alta borghesia torinese (il padre, Alfredo, non credente, fu fondatore e direttore del quotidiano “La Stampa” e, dal 1913, senatore) e animato da un carattere gioviale, pieno di interessi culturali, appassionato di alpinismo, riuscì pure in tali circostanze a praticare un’azione di apostolato tra i suoi coetanei.
«Mi piace quella sua gioia di vivere, che lo faceva alpinista e cavallerizzo, sempre lieto ed esuberante di vita, chiassoso e buon compagno in ogni giovanile impresa», scrisse di lui Montini, che era diventato assistente ecclesiastico generale della Fuci nell’autunno del 1925, pochi mesi dopo la morte di Frassati. «Mi piace – si legge in alcuni appunti autografi redatti nel 1928 e conservati nell’archivio dell’Istituto Paolo VI di Concesio (Brescia), insieme ad altri scritti su Frassati – quella sua maniera di pregare, nella veglia e nello studio, nella semplicità dell’assemblea cristiana e nel raccoglimento della personale ricerca di Dio».
Montini, che ebbe occasione di commemorare Frassati in alcune circostanze tra gli anni Venti e Trenta del Novecento, metteva in evidenza come il suo tratto distintivo fosse, in particolare, la semplicità. «È un semplice – annotava l’8 dicembre 1928 –, il fascino dei complicati non dura», mentre la sua semplicità «fatta di idee sicure, chiare, modi comuni (...) non è povertà, non è miseria», ma, per Montini – che ricordava il nomignolo “Testadura” col quale Pier Giorgio, spesso incompreso, era soprannominato in famiglia – essa scaturiva dalla sua grandezza d’animo radicata nella genuina, pura, convinta e concreta professione della fede cristiana.
Ancora nel 1932 il futuro Paolo VI, recatosi a Torino nel settimo anniversario della morte di Frassati, parlando davanti a una moltitudine di studenti cattolici raccolti nella chiesa della Crocetta frequentata dal giovane, s’interrogò sul «perché la figura di Pier Giorgio ci riesce di grande conforto? Cosa hanno visto quelli che lo hanno guardato da fuori?». Per rispondere bisognava volgere lo sguardo all’intera sua vita, in quanto, spiegava allora Montini, «prima d’accorgersi che era di animo santo, hanno visto che era di animo forte. Hanno visto ch’era un uomo», nella cui fortezza non c’era spavalderia, né esuberanza giovanile, ma perfezione interiore. «Ricco di questa forza Pier Giorgio è moderno e giovane» e la sua figura poteva parlare a tutti i giovani, non solo a quelli che gli erano stati contemporanei. «Un giorno forse – presagì in quel luglio del 1932 Montini, mutando il suo discorso in un dialogo con Pier Giorgio e rivolgendosi direttamente a lui – la Chiesa ci dirà che davvero tutto t’è derivato dalla forza di Dio». In tal modo l’esempio di Pier Giorgio Frassati avrebbe potuto dimostrare anche alle giovani generazioni future come la vita cristiana autentica non rappresenta «una concezione ristretta e sorpassata dell’esistenza umana», perché il cristianesimo, vissuto con gioia e altruismo come fece Frassati, «è l’esaltazione della vita vera». Ancora il 1° settembre 1959, tornato nel capoluogo piemontese da arcivescovo di Milano per tenere la prolusione al 35° congresso nazionale della Fuci, l’allora cardinale Montini ricordò nuovamente Frassati e, pur senza nominarlo, esordì richiamando «il volto d’uno studente bello e vigoroso di Torino», il cui esempio «conforta la certezza che una giovinezza forte e limpida è possibile e vicina» e fa crescere nel cuore «l’interiore anelito verso una superiore bontà».