Alla vigilia della sua elezione, citando Avito di Vienne - santo vescovo del VI secolo - Albino Luciani appuntava nella sua agenda personale: «Se il Vescovo di Roma è messo in discussione, non è il Vescovo, ma l’intero episcopato che vacilla». In un’omelia inedita, l’esatto momento della sua elezione a Vescovo di Roma, il cardinale argentino Eduardo Francisco Pironio lo ricordava così: «Ero proprio di fronte a lui, e lo guardavo. Ed eravamo tutti i cardinali in attesa del suo sì. Il suo sì a Cristo, un sì alla Chiesa come servitore, un sì all’umanità come pastore buono. Io l’ho visto con una serenità profonda, che proveniva da una interiorità che non si improvvisa».
Con un consenso unanime, «che aveva il sapore dell’acclamazione» - secondo l’espressione attribuita al cardinale belga Léon-Joseph Suenens -, dopo un Conclave rapidissimo, durato soltanto ventisei ore, il 26 agosto 1978, Albino Luciani saliva al soglio di Pietro. O meglio, vi discendeva, come
Servus servorum Dei, abbassandosi al vertice dell’autorità che è quella del sevizio voluto da Cristo, se nella agenda personale del pontificato siglava in calce, con queste parole, l’essere ministri nella Chiesa: «Servi, non padroni della Verità». Non fu dunque senza significato quella convergenza massiccia e spontanea dei centoundici elettori, per la maggior parte dei quali si trattava della prima esperienza di Conclave, e che non parevano disposti a sbrigare solo un 'cambio della guardia'. Quanto basta per dire che quella scelta era stata espressione di una comune mentalità ecclesiale ed era arrivata come frutto di una più lontana e attenta riflessione. E proprio questa unanimità rivelava che non era un Papa programmato per un determinato progetto politico. Il Conclave che elesse il successore di Paolo VI è stato il primo dopo la conclusione del Concilio ecumenico Vaticano II. E quell’elezione voleva significare la volontà di progredire nell’attuazione degli orientamenti. I cardinali avevano mirato pertanto alla virtù dirimente della pastoralità. E avevano scelto il pastore. Non ci fu bisogno di particolari valutazioni o compromessi sul suo nome. Il valore di Luciani, riconosciuto da tempo, era tutto nella sua fisionomia incentrata sull’essenziale.
Era il pastore nutrito di umana e serena saggezza e di forti virtù evangeliche, che precede e vive nel gregge con l’esempio, senza alcuna separazione tra la vita personale e la vita pastorale, tra la vita spirituale e l’esercizio di governo, nell’assoluta coincidenza tra quanto insegnava e quanto viveva. Esperto di umanità e delle ferite del mondo, delle esigenze dell’immensa moltitudine dei derelitti che vivono fuori dall’opulenza, un sacerdote di vasta e profonda sapienza che sapeva coniugare in felice e geniale sintesi
nova et vetera. E se il Concilio voleva essere «un segno della della misericordia del Signore sopra la sua Chiesa», come prospettato nella giovannea
Gaudet Mater Ecclesia - ed effettivamente è stato la sede in cui la Chiesa ha scelto 'la medicina della misericordia' -, era stato eletto un apostolo del Concilio, che aveva fatto del Concilio il suo noviziato episcopale, di cui spiegò con cristallina lucidità gli insegnamenti e ne tradusse rettamente in pratica, con coraggio perseverante, le direttive. Anzi le incarnava.
Naturaliter et simpliciter. In primis nella povertà, che per Luciani costituiva la fibra del suo essere sacerdote e nell’essere
propter homines, nella feriale, evangelica carità. Con l’inedita scelta del binomio 'Giovanni Paolo', aveva eretto l’arco di congiunzione di coloro che erano stati le colonne portanti di tale opera. Colonne che furono da taluni giudicate staccate. Luciani conosceva questo dissidio serpeggiante in seno alla Chiesa e lo considerava offensivo della verità e nemico dell’unità e della pace. La scelta del binomio è stata pertanto una delle espressioni non rare dell’intuito geniale con cui il Papa di origini bellunesi sapeva con prontezza afferrare le questioni, vedendone con sicurezza il fondo, e sciogliere il nodo delle situazioni e dei problemi difficili nella Chiesa. Nel corso del pur breve pontificato si sono così manifestate le priorità di un Pontefice che ha fatto progredire la Chiesa lungo la dorsale di quelle che sono le strade maestre indicate dal Concilio:
la risalita alle fonti del Vangelo e una rinnovata missionarietà, la collegialità, il servizio nella povertà ecclesiale, il dialogo con la contemporaneità, la ricerca dell’unità con i fratelli ortodossi, il dialogo interreligioso, la ricerca della pace. In ognuna di queste priorità lo abbiamo visto esprimersi, nei gesti e nelle parole dei trentatré giorni di pontificato. Come frutto di un lavoro da tempo cominciato, attraverso un magistero inauditamente suadente e attrattivo, piantato nella radicale scelta teologica di un linguaggio semplice, conversevole e accessibile, di quel
sermo humilis canonizzato da sant’Agostino, che è comprensivo del mondo e degli uomini ed è con essi dialogante e comprensibile, affinché il messaggio della salvezza possa giungere a tutti. Ed è proprio sull’espressione di queste priorità il filo diretto con il presente.
La stringente e provocante attualità di Luciani. Non occorre perciò chiedersi quale sarebbe stata la strada che con lui avrebbe percorso la Chiesa. L’immagine che della Chiesa nutriva Giovanni Paolo I è quella del discorso delle Beatitudini, dei poveri di spirito, più vicina al dolore delle genti e alla loro sete di carità, che non si nasconde né si confonde con la logica degli scribi e dei farisei, né con quella dei manipolatori ideologici o degli spiriti mondani mischiati nella trama dei partiti. È quella che affonda le radici nel mai dimenticato tesoro di una Chiesa antichissima, senza trionfi mondani, che vive della luce riflessa di Cristo, vicina all’insegnamento dei grandi Padri, e alla quale era risalito il Concilio. È qui che va riconsiderato lo spessore della sua opera. È qui che va ripresa la valenza storica del suo pontificato. Quella che è stata ignorata, sminuita e persino ridicolizzata, perché sfuggente ai riscontri in chiave ideologica di quanti allora, come oggi, non solo nella stampa, confrontano i gesti e le parole con la tabella dei valori stabiliti o dai progressisti o dai conservatori, per decidere come incasellare la figura, come darle una connotazione ideologica, perché appunto è reale, e invece conta solo ciò che diventa ideologico, solo ciò che può ridursi alle alternanze del gioco politico destra-sinistra, progresso- reazione, tradizione-rivoluzione. Non la sua morte repentina, ma la fumettistica sulla sua morte ha liquidato Luciani dalla dignità storica. Una dignità storica che è ancora tutta da riconsegnare, riscoprire e studiare. Per ricomprendere anche il presente. «Tutti noi, specialmente noi di Chiesa, dobbiamo chiederci: Abbiamo veramente compiuto il precetto di Gesù che ha detto: 'Ama il prossimo tuo come te stesso?'». Si definì «povero Cristo» e arrivò a quell’inaudito «Dio è madre» per esprimere il viscerale amore di Dio. «Che io vi ami sempre più» sono state le sue ultime parole. Non è stato forse Luciani il Papa per eccellenza della misericordia? Quanto alla collegialità, che era stata materia argomentata del suo intervento scritto al Concilio, tornò insistentemente sulla fraternità episcopale. All’udienza con i cardinali, il 30 agosto, in riferimento alla
Lumen gentium 22 toccava uno dei punti chiave dell’ecclesiologia del Concilio. «I vescovi – disse a braccio – devono pensare anche alla Chiesa universale… dietro voi vedo i vostri vescovi, le Conferenze, che nel clima instaurato dal Concilio devono dare forte appoggio al Papa... Ecco, questo è vero, però oggi c’è un gran bisogno che il mondo ci veda uniti... Abbiate pietà del povero Papa nuovo, che veramente non aspettava di salire a questo posto. Cercate di aiutarlo e cerchiamo insieme di dare al mondo spettacolo di unità, anche sacrificando qualche cosa alle volte; ma noi avremmo tutto da perdere se il mondo non ci vede saldamente uniti». Con la sua repentina morte si è interrotta questa storia della Chiesa, piegata a servire così il mondo? La sua elezione fu il segno di uno scandalo. Uno scandalo salutare, che doveva sollevare attorno al seggio di Pietro un’ondata antichissima di emozioni e di fede in tutto il mondo. Quella fu la prova che il sovrannaturale non abbandona la Chiesa lasciandone intravvedere il mistero della sua presenza storica.
Albino Luciani non è passato come una meteora, il suo passaggio ha lasciato un segno duraturo e bruciante con la sua sconvolgente pietà.
Non explevit tempora multa. È rimasta nel tempo come la brace sotto la cenere, forte e indeclinabile testimonianza di ciò che è l’essenza, il fondamento autentico del vivere nella Chiesa e per la Chiesa. Non si è chiuso perciò con lui un capitolo della storia dei Papi, non si torna indietro, non si incomincia da capo. Ciò che la Chiesa sta rivivendo nel suo interno da Giovanni XXIII, dal Concilio Vaticano II, da Paolo VI, non è una parentesi. Se il governo di Albino Luciani non poté dispiegarsi nella storia egli ha concorso più di ogni altro a rafforzare oggi e a testimoniare oggi il disegno di una Chiesa che con il Concilio è risalita alle sorgenti, più essenziale, più evangelica. Non parrà poco. Perché il segno di questa storia è quello della Grazia che entra nel mondo, e per vie misteriose lo compenetra per vincere, come l’alba la notte, le ipocrite finzioni, le inenarrabili alienazioni di questa nostra umanità lacerata. Fuori e dentro la Chiesa.