Il Convegno ecclesiale di Firenze. Abitare il mondo, in umiltà
Quello che viene qui restituito sicuramente deluderà. Non è possibile fare la sintesi del risultato, ricchissimo, del lavoro di tutti i gruppi. Non potrò indicare tutte le proposte belle, concrete, che sono state espresse. Non è possibile: anche se i facilitatori e i moderatori hanno scritto un resoconto accurato di quanto è stato detto. Troppi sono infatti gli spunti e le sollecitazioni che sono emerse, e c’è il rischio di perdersi. Ciò che cercherò di offrirvi, allora, è un po’ come il lievito madre. È qualcosa che proviene da tante esperienze che sono cresciute in vari luoghi d’Italia, che avete fatto voi, e che di tali esperienze è stato ed è l’elemento generatore. È qualcosa che, grazie alla condivisione di queste esperienze che abbiamo vissuto qui a Firenze, vi viene di nuovo consegnato: temprato, purificato, affinché possa ancora far lievitare le nostre azioni. Da tutti i gruppi è emerso con chiarezza che “abitare” è un verbo che, come viene mostrato anche nella Evangelii Gaudium, non indica semplicemente qualcosa che si realizza in uno spazio. Non si abitano solo luoghi: si abitano anzitutto relazioni. Non si tratta di qualcosa di statico, che indica uno “star dentro” fisso e definito, ma l’abitare implica una dinamica. È la stessa dinamica che attraversa le altre vie, e soprattutto la via dell’educare. Molti, anzi, hanno visto l’abitare e l’educare strettamente collegati fra loro. In tutto questo però, non si parte da zero. Il cammino ulteriore che ci attende è un cammino che le nostre comunità locali stanno facendo da tempo, andando incontro alle esigenze dei vari territori. Lo fanno, consapevoli che l’abitare, per il cattolico, è anzitutto un “farsi abitare da Cristo”, perché solo a partire da qui può essere fatto spazio all’altro. Si tratta di un cammino, poi, che la Chiesa italiana ha compiuto e che sta compiendo, con risultati concreti e incisivi, anche se essi non sempre sono conosciuti a sufficienza. È la Dottrina sociale della Chiesa, come molti hanno sottolineato, che dovrebbe essere ancor meglio approfondita quale fonte ispiratrice e quadro di riferimento dell’agire pubblico. Ma in che cosa consistono, concretamente, queste relazioni buone che ci troviamo ad abitare, e che dobbiamo rilanciare e praticare nella vita di tutti i giorni? Esse possono venir sintetizzate da alcuni verbi, che sono stati utilizzati, tutti o solo alcuni, dai vari gruppi. Questi verbi sono: ascoltare, lasciare spazio, accogliere, accompagnare e fare alleanza. La prima cosa da fare – vera pedagogia dell’incontro – è acquisire la disponibilità ad ascoltare. C’è chi ha chiesto che vengano allestiti sempre di più luoghi in cui, in un’epoca di grandi solitudini, vi sia la possibilità di parlare e di essere ascoltati davvero. L’ascolto comunque è l’unico modo per uscire dall’autoreferenzialità, che è presente spesso, anche nelle famiglie, dove in molti casi la capacità di ascolto si va perdendo. Ma la famiglia, com’è stato detto, è “un luogo di conoscenze e di azione per abitare il territorio”: è il luogo, cioè, di una fondamentale testimonianza dello stile di vita cristiano. Abitare le relazioni, anche in famiglia, significa però essere capaci di lasciare spazio all’altro. La necessità che venga lasciato spazio all’atro è sottolineata soprattutto dai più giovani. C’è il problema, qui, dei rapporti fra le generazioni. Qualcuno ha detto, letteralmente: “Noi figli abbiamo bisogno di far pace con un mondo adulto che non vuole lasciarci le chiavi, che ci nega la fiducia e allo stesso tempo non esita a scandalizzarci ogni giorno”. È una sfida che dev’essere accolta concretamente, nei comportamenti quotidiani, da tutti i cattolici, per fare i conti con quell’ingiustizia che le generazioni più anziane si trovano oggi a commettere, per lo più involontariamente, nei confronti di quelle più giovani. L’accoglienza, poi, è l’atteggiamento a cui siamo tutti chiamati nei confronti degli altri, e in particolare delle persone più fragili. Vi sono tante forme di fragilità, oggi, che richiedono attiva attenzione: quelle dei bambini e degli anziani, ad esempio; quelle di coloro che hanno perso il lavoro e, in generale, dei poveri; quelle degli immigrati, alla ricerca di quel futuro che nelle loro terre d’origine è loro negato; quelle di chi vive un disorientamento psicologico ed esistenziale; quella, insomma, di tutti coloro che sono messi ai margini di un mondo che è impietoso nei confronti di chi non si uniforma alle proprie strutture economiche e sociali. Ma fare i conti con questo non significa – è stato da più parti sottolineato – limitarsi al gesto, pur importantissimo, del dare: bisogna far emergere la dignità delle persone, bisogna metterle in grado di sentirsi utili, di sentirsi in grado di restituire qualcosa di ciò che hanno ricevuto. Una relazione buona, un’accoglienza vera, non sono semplice assistenzialismo. Ecco perché – e con ciò finisco l’elenco dei verbi più “gettonati” dai gruppi al fine di declinare concretamente il nostro abitare – accogliere significa anche, sempre, accompagnare e fare alleanza. Accompagnare le persone che hanno bisogno di noi; accompagnarle nelle difficoltà, nella malattia, anche nella morte. E tutto questo nei luoghi in cui viviamo tutti i giorni. C’è chi ha proposto, nel concreto, una vera e propria “pastorale del condominio”. Tutto questo si verifica – molti lo hanno sottolineato – nelle relazioni che, a partire dalla relazione fondante con Dio e avendo a modello i comportamenti di Gesù, sperimentiamo quotidianamente. Lo sappiamo bene, e tutto ciò è stato ulteriormente sottolineato. Queste relazioni si costruiscono nella natura e nel mondo – il creato come casa comune da custodire – nei luoghi in cui studiamo, lavoriamo, viviamo i nostri impegni e il nostro tempo libero, nei nostri spazi reali e negli ambienti virtuali. Emerge la necessità di un impegno diffuso, di un cristianesimo vissuto a tutti i livelli e testimoniato quotidianamente, nella trasparenza dei comportamenti. Questo chiede anche un uso dei beni e di ciò che la Chiesa amministra secondo la radicalità evangelica. Ecco la vera tavola di verifica dei frutti di questo Convegno. In particolare, in relazione a questi modi di realizzare la propria fede, sono emerse molte riflessioni riguardo a come vivere la realtà della parrocchia in maniera adeguata alle sfide del nostro tempo. È stato chiesto di superare incrostazioni e difficoltà dovute a modi di pensare a volte ingessati, presenti anche nei vari organismi di partecipazione ecclesiale; è stato chiesto di lasciare più spazio ai carismi dei laici e di fare in modo che la stessa comunità cristiana sia un luogo davvero aperto alle necessità di tutti. Un ultimo aspetto è stato infine sottolineato da tutti i gruppi. Si tratta della necessità di ripensare l’impegno a favore della propria comunità. Si tratta di ripensare la politica, e di farlo in una chiave che sia davvero comunitaria. Alcuni hanno detto: non bisogna semplicemente delegare, e poi disinteressarsi di ciò che viene deciso in nostro nome. Bisogna accompagnare i decisori, che sono i nostri rappresentanti; non bisogna lasciarli soli. Una nuova capacità di abitare le relazioni – un “nuovo umanesimo” – si collega e si esprime anche nella partecipazione e nell’impegno per una vera cittadinanza attiva. In sintesi: ciò che emerso da tutti i gruppi è una continuazione e un rilancio dello stile sinodale. Qualcuno ha detto: La Chiesa o è sinodale o non è Chiesa. Credo che tutto ciò lo abbiamo sperimentato e verificato anche in questi giorni. Ora dobbiamo riportarlo, appunto come il lievito madre, nelle nostre realtà locali. Lo possiamo fare se teniamo presente un aspetto che è tipico del cristiano: la capacità di sognare concretamente. Sentiamo, come parola finale, ciò che è stato detto in un gruppo, con esplicito riferimento a ciò che il Papa proprio qui a Firenze ci ha chiesto: di rileggere e applicare la Evangelii Gaudium. Che cosa possiamo sognare, molto concretamente però, per il nostro futuro? In che cosa possiamo concretamente impegnarci? Ecco che cosa è stato detto: “Sogniamo una chiesa beata, sul passo degli ultimi; una chiesa capace di mettere in cattedra i poveri, i malati, i disabili, le famiglie ferite [EG, 198]; “periferie” che, aiutate attraverso percorsi di accoglienza e autonomizzazione, possano diventare centro, e quindi soggetti e non destinatari di pastorale e testimonianza. “Sogniamo una chiesa capace di disinteressato interesse: che metta a disposizione le proprie strutture e le proprie risorse per liberare spazi di condivisione in cui sacerdoti, laici, famiglie possano sperimentare la “mistica del vivere insieme” [EG, 87; 92]. “Sogniamo una chiesa capace di abitare in umiltà, che, ripartendo da uno studio dei bisogni del proprio territorio e dalle buone prassi già in atto, avvii percorsi di condivisione e pastorale, valorizzando, “gli ambienti quotidianamente abitati”, ognuna nel proprio spazio-tempo specifico e rendendo così ciascuno destinatario e soggetto di formazione e missione [EG, 119-121]”.