Chiesa

La storia. Don Airò e i suoi 70 anni di Messa: «Ho portato Paolo VI tra gli operai»

Marina Luzzi, Taranto giovedì 17 ottobre 2019

Don Airò, sacerdote a Taranto

Classe 1927. Novantadue anni e mezzo. Settanta di questi passati da sacerdote. Un traguardo che ha festeggiato qualche giorno fa. Don Antonio Airò ha una consapevolezza: «Il tempo non è mio. È dono di Dio. Dobbiamo lasciar fare tutto a Lui». Oggi vive nel Seminario minore, a Taranto, dove viene assistito con premura. Ogni mattina legge il giornale, si dedica ai libri – «in questo periodo sono tornato ad approfondire san Francesco d’Assisi, non perdo mai tempo» ci spiega – e poi celebra la Messa, segnando le intenzioni per non dimenticare nessuno. Qualche volta chiede di essere accompagnato a trovare gli ammalati o vengono a prenderlo in auto suoi storici parrocchiani, delle diverse parrocchie che ha servito, cresciuti nel Cammino neocatecumenale, negli scout e nell’Azione cattolica. Lo portano in comunità perché celebri, confessi o tenga catechesi.

Ha il fiato corto don Antonio, ma lo spirito è quello di un ragazzino. La testa, quella di un uomo saggio e felice. «Ho capito fin da bambino cosa volevo fare. In quinta elementare ricordo che l’insegnante ci diede un tema: cosa volete fare da grandi e io scrissi che volevo diventare sacerdote. Tutte le mattine andavo in chiesa, a Messa. Una volta venne un prete da fuori. Arrivò a cavallo, con un ragazzino ad accompagnarlo. Quel bambino servì durante la celebrazione. Chiesi al mio parroco di allora se potevo fare altrettanto. Mi diede da imparare in latino tutte le risposte. Due domeniche dopo mi interrogò. Così iniziò il mio cammino».

Don Antonio era parroco al quartiere Tamburi, quello a ridosso della fabbrica, quando papa Paolo VI venne a Taranto e celebrò la Messa di Natale nell’allora Italsider. Lui lo accompagnò tra gli operai. Era il 1968. «Quando ci arrivai, al Tamburi, non c’era una chiesa. C’erano già delle case e altre in costruzione. Aiutai le maestranze a fabbricare l’edificio e intanto costruivo la comunità. Per l’inaugurazione, con l’arcivescovo, monsignor Guglielmo Motolese, regalammo a ogni famiglia un crocifisso da appendere.

Partii costituendo l’Azione cattolica, poi gli Scout. I giorni erano così pieni di cose da fare ma sentivo che non mi appartenevano». Don Antonio racconta di quando pensò di partire per fare il missionario in Africa. «Anno 1947. Ero ancora in Seminario. Andai a San Giovanni Rotondo da padre Pio. In confessione gli chiesi consiglio. Mi rispose in dialetto: “mo’ vediamo”. Fermo, come se dovesse ascoltare la risposta del Signore. “Di dove sei?” “Di Taranto” risposi. Un altro interminabile silenzio. Poi disse: “A Taranto è la missione tua. Capi’? A Taranto”. Così è stato».

Nel 1974 per don Antonio arriva quello che lui interpreta come un miracolo. Si salva cadendo da un tramezzo altissimo. Stava tinteggiando la volta della chiesa, al posto degli operai, quel giorno a riposo. «C’erano le donne che dicevano il rosario, quasi di fronte all’impalcatura e si disperarono. Ebbi solo il tempo di gridare “Gesù, salvami”. Persi conoscenza ma ne uscii illeso. Mi alzai sulle mie gambe, dopo aver volato per 16 metri. Arrivato in clinica, aspettai in piedi che mi visitassero. Nessuno ci credeva. Vennero ad intervistarmi i giornali locali. Il giorno dopo su un quotidiano nazionale lessi che un sacerdote di Asti, scivolato da un’altezza di cinque metri, era morto sul colpo. Lo vissi come un segno».