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Intervista. Zuppi: «Non rassegniamoci alla paura, dobbiamo costruire insieme»

Marco Ferrando e Matteo Liut sabato 31 agosto 2024

Il presidente della Cei Matteo Maria Zuppi alle Settimane Sociali dei Cattolici in Italia

Il mondo mette paura, ma «non ci possiamo rassegnare». Con il coraggio del futuro, con la forza della speranza, con tutti quegli sforzi di «mediazione al rialzo» che questo momento storico esige, e a cui la Chiesa è pronta a contribuire «non contrapponendosi ai processi culturali ma cogliendo la domanda umana e spirituale» che portano con sé. In questa intervista ad Avvenire il cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Conferenza episcopale italiana affronta tutti i grandi temi, dalle guerre ai migranti, fino all’agenda d’autunno che attende l’Italia: la tenuta sociale del Paese, le riforme, lo stato di salute e il contributo che può dare la Chiesa.

Partiamo dall’Italia: come sta?

Prima dobbiamo chiederci come sta il mondo e come sta l’Europa, altrimenti non capiamo. Attenzione a ridurre il mondo a quello che ci riguarda, anche perché abbiamo capito che in realtà ci riguarda tutto. Speriamo anche di ricordarcelo! Facciamo fatica ad accettarlo, ma è così.

Forse perché il quadro è davvero cupo.

Il mondo mette paura, tanto che, come abbiamo rimosso la morte, addomestichiamo le difficoltà invece di affrontarle. Siamo dentro la pandemia della guerra, che proietta ombre pericolose su tutti. Qualche volta mi sembra che stia vincendo la paura della vita, tanto che cerchiamo prima tutte le risposte e sicurezze per scegliere e pensiamo di avere sempre tempo. Mi sembra che abbiamo abolito il futuro anteriore, per cui non crediamo che quando avremo costruito troveremo quello che cercavamo. Così non c’è nemmeno il futuro e tutto diventa un ipotetico condizionale o, dobbiamo dirlo, ci riduciamo al presente!

Il giubileo del 2025 ci aiuterà a cambiare prospettiva?

Il giubileo ha al centro proprio questo tema della speranza, dell’attesa e della costruzione di un bene futuro. Una speranza fondata ha sempre bisogno di segni che possano confortarla e la fede ci aiuta a vedere questi segni e a orientarci verso il futuro senza paura, in modo positivo. È la speranza che mi suggerisce di costruire quello che ancora non c’è, ma che vedo già oggi, tanto posso dire che “quando l’avrò costruito, la casa sarà bellissima!”.

Tutte le fotografie di taglio economico e sociale raccontano che in Italia ci sono due o più Paesi, sempre più lontani tra loro, per benessere, aspirazioni, possibilità: la frammentazione è inesorabile?

Non ci possiamo rassegnare. È proprio vero, ma lo crediamo poco: nessuno si salva da solo. Coltivo il sogno ingenuo che sia possibile mettere da parte le ideologie - ma non gli ideali, la conoscenza, la passione – per evitare una politica ridotta a rissa e polarizzazione. Coltivo il sogno che sia ancora possibile su temi fondamentali per la nostra convivenza ricercare un consenso ampio, il più ampio possibile.

Che cosa occorre?

Tanta mediazione al rialzo, ma soprattutto non pensare al proprio incasso ma solo e rigorosamente a quello di tutti. Come non guardare con preoccupazione alla povertà che si sta cronicizzando e alle disuguaglianze che crescono, ai giovani che emigrano nonostante i buoni segnali sul fronte dell’occupazione, ai troppi morti sul lavoro. Un vero piano di ricostruzione richiede risposte unitarie, un sistema di dialogo e fiducia e una responsabilità trasversale per liberarsi da quelle effimere. Bisogna sapere scegliere in tempo, non arrivarci per contrarietà!

Difficoltà strutturali e urgenze si confrontano con risorse sempre più limitate, a tutti i livelli: cosa può e deve fare lo Stato, la società civile, la Chiesa?

Ognuno può e deve fare la sua parte. La sua, appunto. La Chiesa ha il compito di mettere al centro la persona, difenderla a indicare la direzione per cui questo avvenga. Dall’inizio alla fine. Auspico, ad esempio, una larga collaborazione per applicare la legge 194 anche nelle parti nelle quali cui parla di aiuto e sostegno alla maternità durante la gravidanza, nel rispetto della volontà e della libertà della donna. Un’alleanza positiva, per evitare sofferenze, non per condannare! Poi c’è la responsabilità e la laicità della politica, anzi di quello che con coraggio papa Francesco ha chiamato l’amore politico. Amore, perché se la politica è tale è una scelta di amore, per gli altri, per il bene, non per il me o il mio ricavo. La nostra bussola è la Dottrina sociale della Chiesa. È questo il compito dei cristiani, che devono essere cristiani che fanno politica, perché la dottrina sociale non è un’etichetta della quale ci si appropria a basso prezzo. È esigente!

Il Papa ha rilanciato mercoledì il suo grido di dolore e speranza per i migranti: questione di regole e di atteggiamento con cui si guarda loro. Da dove partire?

Mi ha molto colpito che abbia parlato della moglie e della figlia di Pato. Se non conserviamo nel cuore queste immagini che sono drammaticamente realtà, diventa tutto uguale e se i problemi, i morti, diventano statistiche, numeri, non capiamo. Che tenerezza e che sofferenza quella mamma che protegge fino all’ultimo disperatamente la figlia nella desolazione del deserto! Ma anche che giudizio che rappresenta.

Le parole del Papa, quasi un grido, hanno scosso le coscienze di molti. Ma il problema, come dice Francesco, è uscire dalla dimensione personale.

Salvare chi è in pericolo è un dovere gravissimo, primario. E saggiamente, con grande e umano realismo che meriterebbe il sostegno di tutti coloro che difendono la vita – il Papa ha chiesto di ampliare le vie di accesso sicure e le vie di accesso regolari per i migranti. È la legalità che contrasta l’illegalità. Così capisco la governance globale delle migrazioni fondata sulla giustizia, sulla fratellanza e sulla solidarietà. E per questo occorre unire le forze per combattere la tratta di esseri umani, per fermare i criminali trafficanti che senza pietà sfruttano la miseria altrui. La vita si difende sempre, dall’inizio alla fine.

Sulla gestione delle politiche migratorie l’impressione è che prevalga ancora lo scaricabarile.

Il Papa invita sempre a un approccio integrale del fenomeno dell’immigrazione (i famosi quattro verbi: proteggere, accogliere, integrale e promuovere) e a una collaborazione globale (delle istituzioni e dei governi, come delle comunità e delle famiglie. È un approccio, ripeto, di grande realismo sul quale speriamo l’Europa si decida a un approccio comune e a non lasciare solo il nostro Paese.

La Chiesa è in campo su più fronti, a partire da quello dell’accoglienza fino ai progetti nei Paesi in via di sviluppo: quale ruolo intende avere nella dinamica dei soccorsi e con quali obiettivi?

Il ruolo della Chiesa è quello di una madre e l’unica paura che ha una madre è quella di perdere uno dei suoi figli. La disperazione è più forte della paura e nona scolta nessuna dissuasione, come avviene. Come aiutare a non fare partire? La Cei dona 80 milioni di euro l’anno per progetti nel mondo di educazione, promozione sociale, di formazione professionale, di cure mediche nei paesi dell’Africa e dell’Asia. Ecco cosa significa per davvero aiutare a restare. Poi penso che dobbiamo fare anche noi molto di più. Lo diciamo da tempo: occorre lavorare per dare a tutti la possibilità di emigrare insieme alla libertà di restare. Se avessimo più risorse potremmo continuare a fare con poco tantissimo. E i missionari e tanti cooperanti sono straordinari: a loro un grande grazie e un ricordo per quanti hanno pagato con la vita. Veri martiri.

Le medaglie di Parigi 24 hanno naturalmente riportato all’attenzione il tema della cittadinanza per le seconde generazioni, e la realtà parla da sola: il futuro dell’Italia e dell’integrazione passa da quel milione di ragazzi che frequentano le scuole e non sono ancora cittadini italiani. Sul tavolo ci sono più proposte e più posizioni ma la questione non figura tra le priorità in agenda: a cosa puntare realisticamente?

Quando un problema umanitario, e per certi versi tecnico, diventa un problema di scontro politico non si capisce più chi ha ragione e chi no. Aprendo una sessione del Consiglio Permanente della già nel luglio del 2022 osservavo che concedere la cittadinanza italiana ai bambini che seguono il corso di studi con i nostri ragazzi, il cosiddetto Ius Scholae, costituisce uno strumento importante di inclusione delle persone ed è un “tema di cultura”. E si trattava di una istanza da tempo ribadita dalla Cei.

La questione mette in gioco un diritto fondamentale della persona.

Per questo deve suscitare delle idee, e non delle ideologie, per trovare le risposte adeguate. È la stessa cosa potere essere uguale ai miei compagni o sentirmi addosso di essere italiano a metà? Più facilmente sceglierò i doveri se ho chiari i diritti.

Ciò riporta al tema dell’educazione.

L’educazione è la scommessa, su cui ci giochiamo il futuro. L’educazione non è affatto una ripetizione, ma una nuova creazione. Ci vuole molto futuro anteriore, sapendo che quello che doni oggi darà frutto!

E siamo alla scuola, ormai alla vigilia del nuovo anno.

Vorrei tanto che tutti coloro che sono partecipi di questa “avventura” sentissero la vicinanza della Chiesa che nutre grande rispetto e fiducia nei loro confronti e infatti si coinvolge in tanti modi perché la scuola sia sempre più esperienza di incontro e di libertà.

Quello dell’Autonomia differenziata è un processo che affonda in realtà le sue radici nella riforma del titolo V della Costituzione.

Ne siamo ben coscienti. Per questo, la Nota approvata dal Consiglio Episcopale Permanente nel mese di maggio richiamava i principi di solidarietà e sussidiarietà a livello nazionale. Preoccupati che possa venir meno il vincolo di solidarietà tra le diverse Regioni, abbiamo auspicato un «patto sociale e culturale» (Evangelii gaudium, 239) perché si incrementino meccanismi di sviluppo, controllo e giustizia sociale per tutti e per ciascuno.

La posizione resta quella?

La Cei se deve esprimere un giudizio usa solo i canali ufficiali. Il testo raccoglieva le diverse preoccupazioni espresse dalle comunità ecclesiali. E ripropone un’attenzione che ha da sempre accompagnato la Chiesa in Italia: la sussidiarietà e la solidarietà. Insegnava Papa Benedetto che senza solidarietà la sussidiarietà scade nel particolarismo e che senza sussidiarietà la solidarietà può divenire assistenzialismo. È questa una bella occasione anche per riflettere sulla partecipazione, nello sviluppo della nostra società, del cosiddetto terzo settore, delle comunità e dei corpi sociali. Se non si promuove in modo efficace la partecipazione di tutti non potrà esserci vera solidarietà.

A proposito: come sono i rapporti con il governo Meloni? Da alcuni suoi esponenti nei giorni scorsi sono arrivati pesanti attacchi.

Con questo Governo, così come avvenuto con quelli passati, c’è una buona interlocuzione e su certi temi una ottima collaborazione. Se la Chiesa esprime un’opinione non è per entrare nel dibattito politico, o per dare indicazioni socio-politiche specifiche, che competono alle forze politiche e sociali, ma solo per promuovere la persona e senza interessi di parte. E questa è proprio la libertà della Chiesa.

Tra i temi oggetto di revisione normativa, tra sentenze della Consulta e vuoti legislativi, c’è il fine vita: è tempo per una legge? Con quali capisaldi?

Di fronte ad ogni condizione è necessario ribadire quali sono i capisaldi di un approccio autentico al letto del sofferente: cura, accompagnamento, presenza solidale, relazione. Questo non smette di ricordare la Chiesa. Si parla tanto di libertà di scelta, ma quale libertà ci può essere dove manca l’accesso alle cure palliative? A quale relazione si fa riferimento se viene minata la fiducia nella professionalità del curante, ridotto ad un mero esecutore? Quale speranza si offre se si allargano le maglie dell’abbandono? C’è un vuoto normativo, ci dice la Consulta, ebbene non riempiamolo tanto per riempirlo. Vedo un bisogno di chiarezza, di confronto, di dialogo che apra percorsi di mediazione possibile, di bilanciamento tra la dignità di ogni condizione di vita e la criticità concreta di chi si trova in questo passaggio.

Su tanti temi drammatici l’Europa sembra afona.

Sì e pensiamo anche a come non aiuti l’Italia nell’affrontare il tema dell’emigrazione. E poi speriamo che la prossima commissione scelga di difendere le radici più profonde e vere dell’Europa che significano anche il ripudio della guerra e la scelta di trovare vie di soluzione alternative ai conflitti. Continuo a pensare che è necessaria una “Camaldoli per l’Europa”.

Come sta la Chiesa italiana, anche lei in cammino sinodale?

La salute della Chiesa italiana dipende anche dalla salute spirituale di ognuno. La Chiesa è comunità. Lo siamo ancora troppo poco e una proposta individualista ha allontanato tante persone dalla Chiesa. Sento però anche tanta passione e tante energie positive, tanta cura per la fragilità, pensarsi insieme e non isolati e pieni di paure. Mi sembra che come a Trieste c’è insieme spirituale e attenzione alla storia, al servizio al prossimo. Lo spirituale non è un’altra dimensione, ma è personale, intima e fraterna allo stesso tempo e chi cerca Dio incontra il prossimo, non cerca una vita che non esiste o importante se risponde ad un modello di prestazione e successo! Lo spirituale rende la vita benedetta anche se fragile e debole come è sempre.

Che ruolo punta ad avere nella società italiana, al centro di un processo di secolarizzazione che sta accelerando?

Il ruolo della Chiesa non è tanto quello di contrapporsi ai processi culturali, ma di sapere cogliere in questi la domanda umana e spirituale. La secolarizzazione spegne il desiderio, la sete, la nostalgia? Non è una domanda di maggiore prossimità? Non dobbiamo in tanta indifferenza e egocentrismo innestare "la gioia del Vangelo", come ripete Papa Francesco? Dobbiamo con la nostra vita personale, con l’attenzione al prossimo, dire che non sta bene l’individuo quando si chiude e il mondo diventa una stanza o coincide con il mio io e che la vita evangelica e di comunità è una vita più bella, più piena di amore, più individuale perché legata al prossimo e a Dio.

Prima ha citato la Settimana sociale di Trieste, che ha mostrato incoraggianti segnali di vivacità e passione civile: come li legge?

La Settimana Sociale è stata un dono di grazia. La presenza di Papa Francesco e quella del Presidente Mattarella hanno spiegato il significato dell’impegno per la partecipazione: «Per definizione – ha ricordato il Presidente – democrazia è esercizio dal basso, legato alla vita di comunità, perché democrazia è camminare insieme». Mi hanno colpito tanti credenti, anche giovani, che nel nostro Paese non si rassegnano alla crisi della democrazia. Sono tante tante le esperienze vive di solidarietà, di cura degli altri, che agiscono quotidianamente e che in modo creativo incidono sul volto delle nostre comunità. Il cattolicesimo italiano ha sete di partecipazione perché è già all’opera nel profondo della nostra società e questa è l’eredità che ci portiamo con noi da Trieste. E credo che sentiamo la responsabilità in un momento di tanta crisi di partecipazione e di democrazia.

C’è voglia di mettersi in rete, in un livello che stia un po’ oltre il prepolitico e prima del partitico: vede spazio per un’iniziativa, plurale, dal basso?

Ogni opportunità di creare reti di dialogo è benvenuta. I legami, qualunque essi siano, non crescono mai per comando o sotto dettatura, ma necessitano sempre di partire dal basso. Mai come in questo momento avvertiamo il terreno fertile per superare steccati e per offrire atteggiamenti costruttivi.

Un’ultima domanda sul dramma del sovraffollamento carcerario, dei suicidi: è il momento di intervenire con misure forti come amnistia e indulto?

I suicidi in carcere chiedono ascolto: la disperazione non può avere come risposta l’indifferenza. Le pene carcerarie – non a caso al plurale nella Costituzione – devono riparare la persona e la società. Recidiva zero era il titolo di un recente convegno del CNEL. Mi auguro si possa continuare in quella direzione.