Attualità

REPORTAGE. «Vogliamo lavoro per mangiare»

Claudio Monici martedì 15 febbraio 2011
Salutano e sorridono. Sull’isola li incontri ovunque, i tunisini calati all’arrembaggio di Lampedusa. Chi è appena uscito dal supermercato Conad con la busta di plastica bianca e dentro una piccola spesa di generi di conforto, biscotti, scatolette, acqua, birra e si­garette; chi va in piazza della chiesa a chiede­re agli isolani dove poter comprare schede te­lefoniche e perché mai non ne vengono rega­late più 'come facevate con i clandestini'; chi, invece, se ne sta seduto a mangiare qualcosa di caldo, un pezzo di pizza al trancio, in un bar di corso Roma. Gruppi e gruppetti, tutti uo­mini, tutti giovani, massimo trentacinque an­ni, con le dita della mano destra pronti a se­gnare la 'v' di vittoria, ma tutti attenti a fare in modo che la loro evidente presenza, come un fiume in piena, non si trasformi in distur­bo.Una presenza che non deve oltrepassare la so­glia di tolleranza di un isola che comincia a segnalare anche un po’ di malumore. Anzi, at­tenti a farsi vedere come ospiti di passaggio, consapevoli che un equilibrio deve essere ga­rantito e rispettato. Perché alla fine del loro viaggio non c’è Lampedusa, considerata solo un trampolino di lancio, ma un altro luogo, lontano da qui. In cerca di fortuna, di un la­voro perso con la rivoluzione che ha cambia­to il loro Paese. Quella Tunisia da un mese e­satto senza governo.Intanto, la meta preferita delle loro passeg­giate nella 'libertà' dell’isola, per occupare le ore di un tempo che sembra trascorrere len­tissimo, pare quella del porto. A curiosare tra gli orari della nave per Porto Empedocle, e­sposti alla Stazione marittima. E poi le solite domande indagatorie: «Dov’è la stazione fer­roviaria? Quanto è lontana la Sicilia? E quan­to costa il biglietto del treno per l’Europa?». Sì, perché se potessero fare l’ultimo grande balzo, quello finale, e quello che ritengono il più semplice, mentre si chiedono perché mai non vengono trasferiti sulla terra ferma, se ne andrebbero tutti a Marsiglia, Parigi, Berlino, ma anche Milano e Firenze o Palermo. In cer­ca di una sola cosa: travaghjo pur manghjare. Invece tocca stare ancora qua, sull’isola e c’è chi ancora, e sono cinque giorni, preferisce dormire a cielo aperto, al freddo, piuttosto che affidarsi al tetto e a un materasso del Centro di prima accoglienza riattivato d’urgenza per affrontare l’emergenza immigrati tunisini. Un modo per sentirsi liberi, ma anche un tentativo di accelerare la partenza. E c’è già chi fa ventilare l’idea di uno sciopero della fame, «se non ci trasferiranno al più presto sulla terra ferma». Lo diceva con un tono di ferma stan­chezza un gruppo di giovani, ospitati nella pa­lazzina dell’Area marina protetta, mentre ri­fiutavano i panini fatti arrivare per il pranzo. Lo sbarco in massa dei tunisini a Lampedusa ha risvegliato un fenomeno che si pensava so­pito, dimenticato da oltre un anno e mezzo e che, invece, in poco meno di quattro giorni ha visto approdare sull’isola 5.278 persone, secondo le cifre ufficiali del ministero degli In­terni. Il Viminale ha anche fatto sapere che il ministro Maroni sarà oggi in Sicilia per ac­compagnare il primo ministro Berlusconi: u­na visita nel Catanese ad una struttura che sarà adibita all’accoglienza dei nuovi immigrati. Mai era accaduto che sull’Isola si presentasse una folla tale in un colpo solo, la stessa cifra della sua popolazione, che assomma a circa 5mila persone. Era a partire dal 2002 che gli ar­rivi a Lampedusa si erano moltiplicati in ma­niera esponenziale con cifre che erano di qua­si 5.000, ma per anno, fino al 2007, quando fu­rono più di 12mila in dodici mesi, per poi ri­dursi al lumicino verso la fine del 2009. Nella giornata di ieri, si è però registrata una tregua negli sbarchi. Gli ultimi ci sono stati do­menica sera, circa 83 persone. Ma tragico è il bilancio registrato alla partenza dalla costa tu­nisina, dalle cui acque giungono notizie non confermate di speronamenti e naufragi, con vittime e dispersi.«Questa mattina dal porto di Lampedusa è sal­pato il traghetto della Siremar diretto a Porto Empedocle con 125 tunisini, sbarcati nei gior­ni scorsi. Sull’isola ne restano circa 2.300, in parte ospitati nel Centro di prima accoglien­za», faceva sapere ieri il comandante della ca­pitaneria di porto Antonio Morana. Per ag­giungere che il tempo sta volgendo al brutto e il mare si farà grosso: «Speriamo che questo scoraggi altri arrivi». Invece, ci sono le tracce di due imbarcazioni che erano state avvistate domenica pomeriggio a 87 miglia e a 37 mi­glia da Lampedusa. Per la capitaneria di por­to dell’isola le due imbarcazioni «potrebbero essere tornate indietro», forse anche respinte dalle motovedette militari tunisine. «Quella a cui stiamo assistendo è un fenome­no completamente diverso dall’immigrazione del passato – osserva il parroco di Lampedu­sa, don Stefano –. Non è gente stremata da un lungo viaggio, non si vedono volti malati e sfruttati dai contrabbandieri di vite. Questo è un fenomeno legato ai fatti che hanno scon­volto la Tunisia. Tutti mi hanno raccontato la stessa storia. Lavoravano per aziende stranie­re che quando è caduto il regime, per man­canza di sicurezza, hanno chiuso le attività. Senza lavoro non c’è pane, per mogli e figli. Non resta che partire in cerca di un altro futu­ro. Ma mi chiedo che cosa sarà se è vero quel­lo che certi analisti prevedono, cioè un esodo biblico dalle coste del nord Africa in ebolli­zione Lampedusa è una processione di tunisini che non si ferma fino a sera. Sbucano per vicoli e strade del paese. Una marcia che ha inizio in contrada Imbriacola. Il vallone dove c’è la struttura che era conosciuta come Cie (Cen­tro di identificazione ed espulsione) e che a­desso, dall’altro ieri, è stata ripristinata come normale Cpa (Centro di prima accoglienza) con i cancelli spalancati per 2.100 persone che attendono di partire per il loro miraggio di vi­ta migliore e con le minacce che in Tunisia non ci torneranno se non «da morti».La gente dell’isola cerca difare il possibile per convivere con la situazione, anche se c’è chi fa notare che la situazione potrebbe sfuggire di mano «per una questione di ordine pubbli­co». Ieri c’erano soltanto sei carabinieri della Prima brigata mobile di guardia ai cancelli spa­lancati del Centro di prima accoglienza, con i tunisini che continuavano nella loro proces­sione senza governo».