Reportage. Vite da prigionieri al Cpr. Il buco nero di Gradisca
Le mura di cinta del Cpr di Gradisca d'Isonzo, che assomiglia a un carcere
«È peggio di un carcere. C’è il nulla per riempire il tempo, in un contesto assolutamente chiuso. Grate ovunque, anche al di sopra dei cortili. Si vede il cielo tra le sbarre». Questo è il Cpr (Centro di permanenza temporanea) di Gradisca d’Isonzo, così come denuncia Giovanna Corbatto, garante comunale per i diritti delle persone recluse. Presidente della cooperativa sociale Murice, promossa dalla Caritas della Diocesi di Gorizia, coordinatrice nazionale del programma dei corridoi umanitari di Caritas italiana, da un anno e mezzo si occupa dei diritti degli immigrati presenti nel Cpr. Il centro, un’ex caserma, sorvegliato da Esercito, Polizia, Carabinieri e Finanza, ha una capienza di 150 persone, ma attualmente ne ospita un centinaio per rispettare le norme anti Covid. Età tra 30 e 50 anni, anche comunitari come i rumeni. Vengono sia dalle carceri che dagli hot spot. «Una sbagliata e pericolosa commistione tra chi ha commesso reati e chi ha l’unica “colpa” di non aver avuto il riconoscimento di rifugiato. Entrambi destinati al rimpatrio ma evidentemente si tratta di casi molto diversi». Eppure a Gradisca il sistema funziona a pieno ritmo, anche durante la pandemia. «L’anno scorso abbiamo avuto 20 rimpatri a settimana, in gran parte tunisini. Il numero più alto tra i Cpr». Che, ricordiamo, sono dieci (vedi scheda). «Si tratta a tutti gli effetti di carceri, non penali ma amministrative». Gli immigrati dovrebbero restarvi al massimo 120 giorni ma in realtà non pochi non vengono espulsi neanche entro questo periodo, così escono per decorrenza dei termini ma dopo poco rientrano, «sono ospiti fissi».
Ma il problema è come si vive nel Cpr. «Non c’è una carta dei diritti del detenuto, non c’è nessuna premialità perché tanto si è destinati al rimpatrio». E così nel centro si ripetono casi di violenza e di autolesionismo. Prima della grate c’era il plexiglass ma veniva rotto per farsi male, e poi farsi ricoverare. «C’è bisogno di una continua manutenzione della struttura perché spaccano e bruciano tutto. Anche i materassi che dovrebbero essere ignifughi. Ma la ditta che deve eseguire le riparazioni lo ha dovuto fare sotto scorta». Una situazione già tesa, peggiorata col Covid. I pasti vengono consumati nelle stanze ma la vaccinazione è stata fatta solo agli operatori, non ai detenuti. Una condizione che si scontra col costo di questi centri. La diaria dei Cpr, con le ultime modifiche del capitolato che hanno solo parzialmente corretto i tagli dell’allora ministro Salvini, è cresciuta da 32,15 euro al giorno a 46,43 per centri fino a 150 posti, come quello di Gradisca, mentre per gli hot spot, sempre fino a 150 posti, la crescita è stata da 33,16 euro a 37,42, e i Cas addirittura solo da 25,25 a 28,73. Un’evidente differenza. «Tolgono i soldi per i corsi di italiano nei Cas e negli Sprar e poi buttano i soldi per i materassi dei Cpr».
Eppure i Cpr sono pieni di problemi. A Gradisca è altissima la percentuale di tossicodipendenti che usano metadone in accordo coi Sert. «Dalle carceri arrivano casi clinici gravi ma qui c’è un grande turn over delle infermiere e quindi la presa in carico è molto complicata. Prendono o no i farmaci di cui hanno bisogno?». In gran parte vengono da fuori regione, mentre «non c’è nessuno che è arrivato lungo la rotta balcanica». Una rotta che attualmente, spiega Giovanna, «non vede un aumento dei flussi. Era stato forte durante il lockdown, molti ci provavano “o la va o la spacca”, poi a primavera c’è stata una battuta d’arresto. Ma ora siamo preoccupati per gli effetti della situazione afghana. Ancora non sono arrivati quelli fuggiti da Kabul ma bisogna prepararsi». E qui giunge una netta critica. «Manca una lettura del fenomeno, si affronta solo l’oggi, non si valuta quello che potrebbe accadere e così manca una programmazione». Elemento positivo, aggiunge, è che «non non ci sono segnalazioni di espulsioni dirette sul confine. Anche se due settimane fa il sottosegretario all’Interno, Nicola Molteni, in visita al Cpr, ha auspicato la ripresa delle riammissioni». Comunque, denuncia, «i confini restano luoghi difficili, i croati non vanno molto per il sottile. Gli immigrati vengono picchiati con bastoni, gli rompono i cellulari, gli aizzano contro i cani. Non possiamo parlare di torture come in Libia ma violenze ci sono».
A preoccupare gli operatori è che «nell’ultimo anno sono aumentati i minori non accompagnati. Spesso lungo il viaggio si dichiarano maggiorenni per poter proseguire». Servirebbero nuove strutture di accoglienza. La cooperativa Murice ha un Cas a Romans con 16 immigrati. «Ne avevamo altri ma coi nuovi capitolati siamo stati costretti a chiudere». Un vero peccato, visto che tra gli ospiti ben 15 lavorano. Vera inclusione che andrebbe favorita, qui come altrove.