Il caso. È vietata ma i tribunali la accettano: maternità surrogata, il nodo giuridico
La maternità surrogata in India
Non si spengono i riflettori accesi dal reportage, che ha illuminato le rotte degli “embrioni viaggiatori” prodotti per il mercato della maternità surrogata. Percorsi illegali tra Asia ed Europa, e a cui gli italiani potrebbero non essere estranei. Si sa: la nostra legge 40 del 2004 vieta l’utero in affitto, ma per aggirarla basta recarsi in un 'bambinificio' estero. E chi lo fa, ora come ora, non subisce alcuna conseguenza penale. Il problema sta tutto nella formulazione della norma, che si presta a interpretazioni contrastanti. «Chiunque, in qualsiasi forma, realizza, organizza o pubblicizza la commercializzazione di gameti o di embrioni o la surrogazione di maternità – si legge all’articolo 12, comma 6 – è punito con la reclusione da tre mesi a due anni e con la multa da 600.000 a un milione di euro».
Ma è sanzionabile solo il personale della clinica oppure anche coloro che fruiscono del servizio?
Sul punto il tribunale di Bologna si è pronunciato nel primo senso: «La condotta di approfittamento della pratica della maternità surrogata in qualità di cliente – così ha stabilito la sentenza 1.549 del 2017 – non è punibile in mancanza di apposita norma incriminatrice». La corte ritiene che il divieto dell’utero in affitto, e le conseguenti pene per chi lo infrange, non possano essere comminate ai cosiddetti “genitori d’intenzione”.
Su questo tema specifico, però, la Cassazione sembra pensarla diversamente, anche se poi – nella sostanza – ritiene non incriminabili gli italiani che hanno affittato un grembo all’estero in uno Stato che consente la pratica. Per arrivare a tale conclusione la Suprema Corte argomenta su più tecnicismi giuridici, ma questa è la sostanza: per punire in Italia chi sia espatriato al solo fine di servirsi della maternità surrogata, sintetizza la sentenza 13.525 del 2016, è necessario che la pratica sia considerata reato anche nel Paese in cui viene messa in atto. La Cassazione spiega di essere giunta a questa decisione per via di alcune «incertezze di interpretazione giurisprudenziale» che, nel dubbio, dovrebbero far propendere per l’assoluzione. Vi è infatti una corrente piuttosto “aperturista” secondo cui chi fa assemblare un bimbo all’estero potrebbe non avere la consapevolezza del carattere delittuoso della sua scelta. Ci troveremmo in quello che legge definisce «errore inevitabile sul precetto», contesto nel quale non può essere irrogata alcuna sanzione.
Di fronte a questo guazzabuglio, alcune Procure hanno provato a sostenere la rilevanza penale di un altro atto connesso alla surrogazione di maternità: il tentativo da parte della coppia di ottenere nel proprio Comune la trascrizione dell’atto di nascita estero, nel quale entrambi i “committenti” sono indicati come genitori (quando in realtà così non è). Il reato in questione sarebbe quello previsto e punito dall’articolo 567 del Codice penale, secondo cui «si applica la reclusione da cinque a quindici anni a chiunque, nella formazione di un atto di nascita, altera lo stato civile di un neonato, mediante false certificazioni, false attestazioni o altre falsità».
Anche in questo caso, però, i giudici hanno per lo più ritenuto di assolvere gli imputati.
Lo ha fatto anche la Cassazione, per esempio con la sentenza 31.409 di quest’anno, in cui si legge che «ai fini della configurabilità del reato è necessaria un’attività materiale di alterazione di stato che costituisca un quid pluris rispetto alla mera falsa dichiarazione e si caratterizzi per l’idoneità a creare una falsa attestazione, con attribuzione al figlio di una diversa discendenza». Ma è davvero così? Più volte, su queste pagine, si è argomentato sul carattere ideologico delle sentenze. Ora, però, la questione è un’altra.
Innanzi alle evidenze mostrate dal reportage di Avvenire il Parlamento si trova innanzi a un bivio: può far finta di nulla, nei fatti liceizzando il proliferare di questa tratta, oppure mettere mano al divieto della legge 40 chiarendolo e rafforzandolo. Non è una questione religiosa, ha detto ieri il deputato Pd Alfredo Bazoli. Ma di semplice «umanità».