Acqua inquinata. Vicenza, ancora veleni nella falda
Miteni, azienda sotto accusa
Rubinetti sigillati. Vietato bere l’acqua (contaminata) del rubinetto. Autobotti che attraversano Trissino, nel Vicentino, e i paesi circostanti per garantire l’approvvigionamento di una popolazione incredula che si chiede che cosa mai sia successo alla propria acqua. Uno scenario da incubo, insomma.
Nulla a che vedere, fortunatamente, con quel che sta succedendo oggi nel Veneto comunque inquinato dagli acidi perfluoroalchilici, i cosiddetti Pfas. Eppure questo episodio, datato settembre 1977 e documentato da G. L. Fontana e G. Bressan in 'Trissino nel novecento' (Il Poligrafo), resta indicativo per comprendere a fondo la contaminazione in atto in questi anni nella grande falda di Almisano – che abbevera 250mila veneti – e delle acque dei bacini Agno-Guà e Fratta-Gorzone. I composti chimici che avvelenano l’acqua provengono infatti da quello stabilimento produttivo di Trissino sorto nel 1965 accanto alla pista di decollo del conte Marzotto. Che allora si chiamasse Rimar (Ricerche Marzotto) e disperdesse nell’ambiente ingenti quantità di benzotrifloruri, mentre oggi si chiama Miteni, appartiene a una compagnia internazionale basata in Lussemburgo, e secondo la Commissione parlamentare sul ciclo dei rifiuti è responsabile dei reati di inquinamento ambientale e mancata bonifica per la contaminazione da Pfas, all’atto pratico poco cambia.
Del fatto che l’inquinamento possa essere continuato successivamente, però, la relazione della Commissione parlamentare, approvata mercoledì scorso, non fa cenno, «ed è un fatto singolare», commenta il chimico Lorenzo Altissimo, che seguì il caso negli anni ’70 e il successivo studio dell’Oms presentato a Venezia nel 1980. «Solo a partire da questi dati si capisce che sotto l’attuale stabilimento Miteni si trova uno strato di almeno 10-15 metri di sabbie e ghiaie contaminate da decenni che ogni volta che l’acqua di falda si alza di livello continua a rilasciare Pfas e altri inquinanti. Se si vuole davvero risolvere il problema alla radice, occorre intervenire lì».
A suffragare il sospetto che per anni sotto lo stabilimento siano stati sepolti pericolosi scarti di produzione, c’è il ritrovamento, un mese fa, da parte degli stessi dipendenti della Miteni di rifiuti industriali emersi durante una campagna di carotaggi sulle rive del Poscola, il torrente che costeggia lo stabilimento. Da qui l’iscrizione e gli otto avvisi di garanzia spiccati a fine gennaio dalla Procura di Vicenza. Ma la pratica non si sarebbe interrotta nemmeno negli anni successivi. Un ex lavoratore che preferisce rimanere anonimo sostiene che ancora nei primi anni Duemila gli scarti di produzione non venivano trattati a dovere. «Gli elettroliti delle celle venivano trattati con la calce – spiega – poi venivano portati nella zona fanghi dove si trovava il neutralizzatore e venivano mescolati con fanghi neutri e quindi tutto veniva smaltito come semplici fanghi.
Nemmeno l’attrezzatura, come i guanti saturi e le canne contaminate, veniva classificata». Miteni respinge i rilievi fatti dalla Commissione e parla di «evidenti contraddizioni e approssimazione inaccettabile» per quanto riguarda il superamento dei limiti e sottolinea come «sul piano scientifico la pericolosità dei Pfas che si tende a dare per scontata non è per nulla accertata ». Le autobotti oggi sono state scongiurate grazie ai filtri a carboni attivi che rendono sicura l’acqua, seppure a costi esorbitanti: Acque veronesi, gestore dei pozzi di Lonigo, investe ogni anno una cifra vicina a 1,5 milioni di euro. Proprio per questo il Tavolo permanente di confronto sui Pfas, che si è riunito nei giorni scorsi in Regione, sta mettendo a punto il progetto definitivo degli interventi sulla rete per portare acqua pulita in zona, come stabilito la scorsa estate dal ministero dell’Ambiente che ha anche stanziato 80 milioni di euro. Stando alle ultime indiscrezioni ad Almisano convergeranno due tratti, uno dal padovano e uno dal veronese, e i lavori (il cui costo supererebbe però i 220 milioni di euro) dovrebbero durare cinque anni. Una soluzione che sigillerebbe la falda senza ripulirla, con il rischio che il plume contaminato continui a propagarsi a circa un chilometro all’anno come sarebbe accaduto finora.