Sanità. Viaggio tra i malati lasciati soli. È l'Italia che non si cura più
Un carcinoma alla prostata diagnosticato a maggio, decine di esami clinici effettuati in laboratori sempre diversi, altre visite mediche e quindi l’estenuante attesa della chiamata per l’intervento di rimozione del tumore. Una telefonata che, a distanza di quasi sei mesi, non è ancora arrivata. Anzi, Giovanni (caso vero, nome di fantasia) non risulterebbe nemmeno nella lista predisposta dal primario del reparto ospedaliero che, secondo lui, dà «la precedenza ai suoi pazienti, e gli altri come me rimangono indietro». È così che l’ansia e lo stress, condizioni quasi sempre correlate al cancro, si possono trasformare in rassegnazione. Ci si sente affaticati, privi di energie, incapaci di prendere iniziative da soli. «Giovanni si sta lasciando andare – racconta la moglie – non vuole essere operato in altre strutture pubbliche perché dice di fidarsi solo del suo specialista, non va più nemmeno dal dentista perché pensa che sia inutile spendere quei soldi.... Portarlo in una clinica privata? Non ce lo possiamo permettere e io non so proprio cosa fare per aiutarlo».
Giovanni è un operaio in pensione, ha 68 anni e vive in una modesta casa di Pioltello, nell’hinterland milanese, un esempio di come può succedere anche al Nord, dove la Sanità è quasi sempre un’eccellenza, che il sistema delle prenotazioni nei grandi ospedali si ingolfi, con tempi di attesa delle degenze che in qualche caso possono anche superare i 300 giorni. «Adesso mi sento bene, faccio fatica a urinare ma non ho ancora dolori – spiega Giovanni – però mi sono stancato di chiedere, di telefonare, di fare visite e prelievi, non ne posso più, a questo punto sarà quello che Dio vuole...». Giovanni è uno dei sei milioni di italiani (il 12% della popolazione) che, almeno una volta, hanno rinunciato a curarsi, e non solo per ragioni economiche, come risulta dall’indagine presentata a gennaio dall’Istat e realizzata per Ehis ( European Health Interview Survey).
Gli italiani che non si curano più a causa dei costi delle prestazioni sanitarie o delle liste d’attesa troppo lunghe per esami e interventi chirurgici (dati Istat)
2,3 milioni
I cittadini che, tra i 6 milioni che rifiutano le cure, hanno deciso di non prendere più i farmaci loro prescritti (si tratta del 4,4% della popolazione)
3,5 milioni
I cittadini italiani con più di 65 anni che hanno dichiarato di rinunciare alla cure mediche. Rappresentano più del 60% del totale
C’è chi non va dallo specialista perché è troppo lontano da casa e non ha nessuno che lo accompagni, e chi non assume i farmaci prescritti (il 4,4% in media della popolazione, poco più di 2,3 milioni) perché costano troppo o perché, vivendo da solo, nessuno gli ricorda quando deve prenderli. Sono soprattutto anziani, da 65 anni in su: circa 3,5 milioni, secondo i dati, più del 60% del totale dei “rinunciatari”.
Tra le cause che portano a trascurare la propria salute ci sono solitudine, mancanza di comunicazioni, carenza o disorganizzazione di servizi sanitari sul territorio. In una sperduta frazione del comune di Filiano, poco meno di tremila abitanti in provincia di Potenza, un pastore ammalato di tumore in stato avanzato ha vissuto da solo nell’unica stanza della casa, attaccata alla stalla, mentre il figlio era fuori tutto il giorno a pascolare le pecore: sono dovuti intervenire gli addetti dell’Adi (Assistenza domiciliare integrata) su segnalazione di un vicino, per poterlo curare con le necessarie terapie. E sono arrivati lassù con l’aiuto della Protezione civile, perché nevicava. Mancano i medici (oltre 10mila tra chirurghi, anestesisti e pediatri) e gli infermieri (53mila in meno rispetto alle necessità) e questo allunga i tempi complicando le modalità della cura. «Il Sistema sanitario nazionale sta andando verso l’abbattimento delle competenze: non si assumono tanti medici quanti ne servirebbero e anche quelli di famiglia sono insufficienti – commenta Roberto Messina, presidente di Federanziani – con la conseguenza che quasi tutti diventano “massimalisti”, raggiungono cioè la quota massima dei 1.500 pazienti: troppi, così il tempo e la dedizione per ognuno di loro diminuisce notevolmente... i sintomi si ascoltano al volo, insomma, e si rimanda allo specialista anche quando non ce ne sarebbe bisogno ».
Come nel caso di Mario, 73 anni, che vive da solo in un borgo del rodigino: ha un sospetto enfisema polmonare e il medico di base gli ha detto di andare dallo pneumologo per approfondire il quadro diagnostico e stabilire la terapia. Ma in provincia di Rovigo gli pneumologi negli ospedali pubblici scarseggiano e non è facile prendere un appuntamento. «Mi hanno detto che devo aspettare mesi, e poi io come ci arrivo a Rovigo? E se devo andare da un’altra parte? Non guido e non ho parenti: chi mi accompagna? Finché ho soltanto la tosse posso andare avanti, quando arriveranno disturbi più fastidiosi, si vedrà».
È disorientato, Mario. Perché anche l’assenza di informazioni adeguate può spingere a chiudersi in se stessi, a non curarsi o a chiedere aiuto alle associazioni di volontariato. «Le difficoltà di accesso alle terapie spingono a lasciarsi andare, soprattutto se uno è anziano e, per esempio, dipende dai figli o dai nipoti per i trasporti e l’assistenza – spiega Roberto Messina – ma è proprio così che ci si abitua a convivere con la malattia o con piccoli dolori cronici che però possono essere dei campanelli d’allarme che annunciano, in alcuni casi, lesioni precancerose». Un recente studio del Consorzio per la Ricerca Economica Applicata elaborato per l’università Tor Vergata di Roma, invece, ha analizzato i tempi medi di attesa per gli esami clinici nelle strutture pubbliche: 22 giorni per la radiografia a una mano e fino a 96 per una colonscopia; le medesime prestazioni nel settore privato hanno tempi molto inferiori, ovvero 3 giorni per la lastra e 10 per l’indagine all’intestino.
I medici che mancano attualmente nel servizio sanitario nazionale. Nel 2025 si stima che mancheranno 52mila “camici bianchi”
30 mila
Gli infermieri che mancano bel Sistema sanitario nazionale rispetto al fabbisogno. Si calcola che la carenza arriverà fino a 58mila nel 2023
12.828
I presìdi residenziali socio-assistenziali e socio-sanitari attivi in Italia (dati Istat). Le strutture dispongono complessivamente di 390.689 posti letto
Ma i costi delle prestazioni per alcune patologie possono essere una ragione insormontabile della rinuncia a curarsi per chi percepisce una pensione al minimo, è disoccupato o non ha un reddito da lavoro che gli consente di sopravvivere. Ecco il caso di A.L., che vive nella Città metropolitana di Roma, ha 50 anni ed è affetta, tra le altre cose, da fibromialgia. «Ho invalidità 34% (che non mi dà diritto a niente) – racconta – e la Regione Lazio riconosce la malattia ma non mi aiuta in nessun modo, nemmeno con una esenzione ticket che so esiste invece in altre Regioni. Non riesco più a lavorare per via della malattia, e non so davvero come fare per vivere in maniera dignitosa. Pago per far parte di una associazione che mi consiglia e assiste, poi pago anche per le visite mediche e per spostarmi e non ce la faccio: comincio a essere depressa ».
Farsi aiutare da uno psicologo? «Ma con quali soldi? Sono questi i diritti dei malati? Perché queste differenze, solo perchè abito nella Regione sbagliata? Adesso sono a casa, ma-lata, senza lavoro, sfiduciata e senza speranze e ho rinunciato anche alle cure e alle visite che ho da fare. Mi sento impotente e molto limitata». Per tutelare i suoi diritti A.L. si è rivolta a Cittadinanzattiva.