Nella movimentata costa turca del Mediterraneo è bassa stagione. Eppure il modesto aeroporto di Adana non manca di passeggeri in arrivo. Non sono turisti. Lo si capisce dall’espressione mesta con cui gli adulti guardano i loro bambini. Sbarcano a gruppetti da voli provenienti dal Libano. Sono profughi siriani in cerca di una nave che faccia rotta verso l’unico continente senza guerre: l’Europa. La regione di Adana, a un paio d’ore dal confine con la Siria, è la mecca dei profughi e l’Eldorado dei trafficanti di uomini. Migliaia di fuggiaschi rimasti incastrati a sud di Aleppo e Homs rinunciano ad attraversare il confine Nord, teatro di scontri e atrocità. Marciano verso il Paese dei Cedri e da lì, con i voli di linea, risalgono verso Adana, dove a meno di un’ora di treno raggiungono gli alberghi di Mérsin, il porto commerciale più importante della Turchia. Per un paio di settimane in una pensione si spendono non più di 270 lire turche, cento euro a camera. E di solito 15 giorni bastano per saltare su uno dei cargo strappati ai demolitori e rimesso in mare per l’ultimo viaggio. Da ottobre ne sono partiti 15, in media uno a settimana. Le statistiche ufficiali dicono che nei 22 campi allestiti lungo il confine, nei quali affluiscono quanti vivevano nei villaggi delle province frontaliere, ci sono 221.500 profughi. Generalmente si tratta dei più poveri, che non hanno altra risorsa che sperare nella fine di una guerra già durata quattro anni. Gli altri, oltre un milione, hanno provato a trovare a proprie spese quattro mura affittate a buon mercato o stanno cercando il modo per lasciarsi alle spalle questa parte di Mediterraneo. «Viviamo da sfollati, ma non ci è riconosciuto lo status di rifugiati», si lamenta Fareed, uno degli ultimi arrivati a Mérsin con la famiglia di una dozzina di persone. Secondo la legge turca, i siriani non sono tecnicamente dei rifugiati, ma 'ospiti' sotto protezione temporanea. «In altre parole siamo tra due fuochi», insiste Fareed, che vicino Aleppo faceva l’infermiere e si illude di trovare facilmente lavoro in Europa. Nella città turca che guarda a un mare trafficato di bastimenti, il quarantenne siriano ha preso appena fuori dal porto due stanze senza riscaldamento. «Non ci staremo molto, siamo solo di passaggio – dice accendendosi in un lampo di speranza – ci aspettano i nostri cugini in Svezia ». Per lui restare in Turchia non ha senso. «Se non ci riconoscono come profughi di guerra vuol dire che da un giorno all’altro ci possono espellere», ributtandoli in pasto ai carnefici da cui scappavano. «Ho quattro bambini, quale padre correrebbe questo rischio?». Ankara ammette che si tratta di persone che «per un lungo tempo a venire» non potranno tornare a casa, ha ribadito nei giorni scorsi il vice primo ministro Kurtulmus, invocando dalla comunità internazionale «politiche permanenti », ovvero un’azione diplomatica congiunta e cospicui fondi alla Turchia. Intanto che si discute i contrabbandieri di vite hanno dalla loro una certezza: davanti a un mercantile stipato di esseri umani, lasciato senza governo e con il timone bloccato in direzione della costa, l’Europa non ha altra scelta morale che evitare le stragi. E i governi dell’Ue persistono nel credere «che in qualche modo le persone, che non hanno opzioni legali e nessun’altra speranza per la propria sopravvivenza, abbandoneranno così pericolosi tentativi di raggiungere il continente», ha scritto il
New York Times. Negli ultimi giorni le autorità turche stanno subendo la pressione di Bruxelles, che vorrebbe maggiori controlli sui siriani e soprattutto massima sorveglianza sui mercantili che salpano dai porti del Paese. Al momento da Ankara arrivano risposte interlocutorie. Nella regione, secondo le ong, ci sono almeno 1,5 milioni di rifugiati (su 75 milioni di abitanti) e in mancanza di un ponte umanitario verso il Vecchio continente, alla Turchia fa comodo che la pressione migratoria si alleggerisca da sé. Qualche problema in più i trafficanti potrebbero averlo dall’annunciato giro di vite del Libano, che imporrà la richiesta di un visto ai profughi. Fino a pochi giorni fa dal Sud della Siria era possibile ripararsi dalle parti di Beirut senza dichiarare lo status di rifugiati, in questo modo i profughi che possono permetterselo raggiungono lo scalo libanese e da lì volano in Paesi con i quali esistono accordi di libera circolazione, come la Turchia, diventata nelle ultime settimane la principale centrale di smistamento degli immigrati irregolari verso l’Europa. «La decisione – ha detto l’ambasciatore siriano a Beirut, Ali Abdul Karim Ali – contraddice gli accordi bilaterali, i quali prevedono che ogni cambiamento ai trattati debba essere discusso tra i due Paesi». I profughi oltre ad essere vittime sono diventati un’arma politica per destabilizzare l’intera regione. E una fonte di finanziamento per le mafie locali in combutta con le organizzazioni direttamente coinvolte nel conflitto.