«È stata una giornata non facile, a tratti carica di tensione, su fronti contrapposti. Ma alla fine hanno vinto le mediazioni condivise e il lavoro comune». Tra le forze dell’ordine e i rappresentanti istituzionali, tra quelli delle associazioni e i volontari, accanto al personale sanitario, il vescovo di Ventimiglia-Sanremo, Antonio Suetta, è stato il paziente tessitore, sul posto, di una trattativa delicata. Alla fine ha portato a casa un risultato positivo.
Ieri ha dovuto difendere contemporaneamente le istanze dei migranti, quelle della popolazione di Ventimiglia e delle stesse forze dell’ordine.Il nervosismo era palpabile dalla serata di martedì. Il momento di maggiore difficoltà lo abbiamo vissuto quando i profughi, di fronte ai quali erano schierate le forze di polizia, non potevano ricevere acqua e cibo. Ma proprio dai tutori dell’ordine e dalle istituzioni ho potuto constatare la volontà di una piena collaborazione. Il clima si è rasserenato quando è stato chiaro che gli ospiti non sarebbero stati perseguiti ma, semplicemente, trattati da migranti, da persone bisognose di aiuto.
A quel punto la soluzione era dietro l’angolo.Dopo un lungo periodo di attesa, si è deciso di farli accompagnare, dai volontari e dal personale della Caritas diocesana, al centro di accoglienza della Croce Rossa, nella stazione di Ventimiglia, dove resteranno finché dura l’emergenza. I
no border, invece, sono andati in commissariato. Ma la polizia ha tenuto in debito conto il gesto di abbandonare la scogliera prima ancora che arrivasse il loro avvocato.
Un passo avanti forse insperato all’inizio della giornata?Io lo definisco un segnale timido ma concreto sulla strada della distensione e del dialogo.
Nella distensione, nel dialogo, che posto ha il rispetto della legalità?Vanno proprio evitate le situazioni che presentano i presupposti della illegalità, perché inevitabilmente finiscono per creare tensioni e problematiche anche gravi. Pure chi accoglie ha il diritto di vivere in pace. Questa vicenda può inaugurare un tentativo di radunare attorno a certe tematiche tutto il mondo del volontariato e della società civile nel tentativo di prevenire situazioni pericolose.
In che modo agire in futuro?Non ho ricette rispetto a un problema tanto complesso. Tuttavia, pur continuando a sussistere un’emergenza in termini di numeri, è necessario che in Italia e in Europa maturi un progetto vero e integrale di accoglienza che esuli dall’emergenza.
È quanto, nell’ambito delle sue competenze e dei suoi compiti, sta facendo anche la Conferenza episcopale italiana?Sì, perché servono regole certe anche per noi, per il mondo ecclesiale, per gli organismi pastorali, per le tante parrocchie attive sul fronte dell’accoglienza. È un’esigenza che, a livello di Cei, verrà presto soddisfatta. Vogliamo tutti mettere in pratica l’appello all’accoglienza rivoltoci da Papa Francesco, e vogliamo tutti farlo con omogeneità di stile, condividendo le esperienze e facendo in modo che i percorsi siano i meno sperimentali possibili per dare buoni risultati sin dall’inizio.
Quali prospettive ci sono per le persone che avete soccorso ieri?Resteranno nel centro della Croce Rossa finché, attraverso i circuiti di accoglienza secondaria, non riusciremo a garantire loro una sistemazione diversa. Come è già avvenuto per 25 di loro grazie alla Caritas. Dopo la fase dell’emergenza serve un’accoglienza accompagnata e un minimo di integrazione. Una seconda fase più complessa che richiede impegno e il reperimento di strutture.
Come si passa dall’accoglienza all’integrazione?Il vero processo di integrazione avviene prima di tutto a livello di coscienza e di convinzione culturale. Sarebbe un bel passo in avanti.