Attualità

Caso Pfas in Veneto. Acqua inquinata per 300mila persone Mamme in campo

Luca Bortoli sabato 16 settembre 2017

Quattro lettere, un vero e proprio incubo. Si chiama Pfas, una "sigla" che comprende una famiglia di composti chimici, acidi perfluoroalchilici, dalle molte applicazioni. Da quattro anni il caso Pfas spaventa 300mila cittadini che vivono in un’area di 150 chilometri quadrati tra le province di Vicenza, Padova e Verona. Nel mirino c’è una delle falde acquifere più ricche della Pianura Padana, oggi inutilizzabile, se non grazie all’azione dei filtri a carboni attivi installati dai gestori del servizio idrico nel 2013, dopo lo studio del Cnr che ha portato alla luce la vicenda. Proprio ieri la commissione parlamentare ecomafie, che studia il caso, è ripartita per Roma dopo un’intensa due giorni in terra veneta. In realtà, il caso si trascina dagli anni Sessanta quando il conte Giannino Marzotto fondò la Rimar, Ricerche Marzotto, appunto – a Trissino. Obiettivo: studiare nuovi tessuti impermeabili per i capi della nota industria tessile. A oltre cinquant’anni di distanza, quell’azienda si chiama Miteni appartiene al colosso della chimica basato in Lussemburgo Icig ed è l’unico produttore di Pfas non solo del Veneto. Una specificità che ha portato Arpav a indicarla come responsabile della quasi totalità dei composti dispersi in ambiente. Alla commissione d’inchiesta parlamentare che ha riaperto le indagini dopo la relazione dei Carabinieri del Noe di Treviso, si è poi aggiunta due settimane fa anche una commissione speciale del Consiglio regionale. Sotto i riflettori non ci sono solo il terreno su cui sorge la Miteni, una potenziale discarica che continua a rilasciare in falda Pfas (e non solo). Ma anche la salute dei cittadini e le potenziali conseguenze economiche causate dalla contaminazione. L’allarme sociale infatti è sempre più alto. I risultati emersi finora? Dal biomonitoraggio su 85 mila cittadini, partito a gennaio, emergono livelli di Pfas preoccupanti nel sangue: molte persone sono state invitate a sottoporsi a plasmaferesi.

L’ultima mazzata, per Giovanna Dal Lago e suo marito Antonio Tiso, è arrivata pochi giorni fa. Il loro secondo figlio Giovanni, classe 1994, dalle analisi dell’aprile 2016 era risultato in famiglia quello con il tasso più alto di Pfoa (l’acido perfluoroottanoico) nel sangue: 254 nanogrammi per millilitro di siero. Richiamato dalle autorità sanitarie per un controllo a luglio, i suoi esami hanno presentato un esito sconfortante: 346 nanogrammi. Ben 60 in più in appena quindici mesi (un dato preoccupante, specie se si considera che il livello di tolleranza in media si ferma a 8 nanogrammi).


E questo nonostante i filtri a carboni attivi che da quattro anni abbattono le concentrazioni di acidi perfluoroalchilici nella 'zona rossa', che comprende 21 Comuni delle province di Vicenza, Verona e Padova. La storia di questa famiglia di Lonigo, nel Vicentino, è dunque emblematica per comprendere l’impatto sociale del maggior caso di inquinamento idrico del Nordest, che ha coinvolto 300mila persone da almeno quattro anni. In casa Tiso, nella campagna di Lonigo, vivono in sette. Giovanna e Antonio hanno cinque figli, nati tra il 1992 e il 2002, tra cui un ragazzo ghanese, in affido dal 2009. Nessuno di loro è risultato immune dalla contaminazione. Anche il 26enne africano, in Italia da meno di otto anni riporta concentrazioni di acido perfluorottanoico pari a 101 nanogrammi su millilitro di sangue. «Quando in primavera abbiamo ricevuto gli esiti di questi esami – racconta Giovanna – ci è caduto il mondo addosso.

Abbiamo voluto fortemente tornare a vivere in questa zona, dopo anni in città, per permettere ai nostri ragazzi di vivere a contatto con la natura, per coltivare l’orto in nome di un’alimentazione sana. E così facendo siamo finiti in questo inferno ». Anni trascorsi a costruire uno stile di vita attento alla salute in tutte le sue forme, interrotti d’un tratto da un elenco di fredde cifre riportate in una serie di referti medici. «Tutte le nostre attese sono state tradite» dicono adesso. Lo sconforto e la rabbia hanno lasciato presto spazio alla volontà di cambiare le cose. Più arrivavano gli esiti sulla presenza di Pfas nel sangue dei figli di questa terra, più le mamme decidevano di mobilitarsi per fare qualcosa. Subito. «Ormai ne siamo consapevoli: noi e i nostri figli siamo contaminati. Ci vorranno anni – e soprattutto delle fonti idriche pulite - per purificare il nostro sangue.

Ma abbiamo una responsabilità verso il nostro futuro e verso chi verrà dopo di noi». Sono così iniziate le campagne informative, gli incontri con medici, tecnici e politici. Il 6 settembre a Venezia c’è stato anche un confronto con il presidente Luca Zaia. Ora, per Giovanna e suo marito, si tratta di decidere se sottoporre oppure no a plasmaferesi i loro cinque figli. Per due di loro, Albero e Maria Francesca, che presentano concentrazioni superiori a 200 ng/ml, occorrerebbe andare fino a Padova. Tutti gli altri dovrebbero rivolgersi all’Ulss 8 di Vicenza. «Parliamo di sei giorni di trattamento per ognuno dei miei figli». Trenta giorni di permessi che nessun genitore rifiuterebbe di chiedere. Ma un dubbio rimane. «Davvero ha senso sottoporli a tutto questo se poi la nostra acqua ancora non è pulita?».


È questo il bivio a cui si è giunti: in questi giorni i tanti comitati di 'Mamme no Pfas', nati spontaneamente nel territorio, sono stati ascoltati dalla commissione parlamentare d’inchiesta sugli ecoreati tornata in Veneto per approfondire le indagini. Le indagini della magistratura, secondo le famiglie, procedono troppo lentamente. Il procuratore capo di Vicenza Antonino Cappelleri ha spiegato che il lavoro dei suoi uomini è legato a doppio filo al biomonitoraggio sulla popolazione in corso, per il quale sembrano servire ancora due anni. Così le famiglie si preparano per la grande manifestazione dell’8 ottobre a Lonigo in cui chiederanno alle autorità a tutti i livelli di firmare pubblicamente l’impegno a tutelare il bene comune dell’acqua. A tutti i livelli e a garanzia di tutta la popolazione.