Puglia. Il vedovo di Paola Clemente: braccianti senza giustizia, da vivi e da morti
Paola Clemente con il marito in una foto tratta dal profilo Facebook di quest'ultimo
«Continuo a chiedere giustizia per mia moglie e per tutte le persone che hanno perso la vita lavorando in condizioni disumane». A parlare è Stefano Arcuri, il marito di Paola Clemente, la bracciante di San Giorgio Jonico (Taranto) madre di tre figli che morì a 49 anni nell’estate del 2015 in un vigneto di Andria. Fu stroncata da un infarto mentre stava lavorando all’acinellatura dell’uva con 45 gradi.
Sono trascorsi sei anni dal sacrificio di sua moglie e ancora si muore per il caldo e per il lavoro nei campi. Non è cambiato nulla?
È cambiato molto poco. È vero, c’è una legge contro il caporalato, come anche le ordinanze che vietano il lavoro nelle ore più calde. Ma servono i controlli, altrimenti resta tutto sulla carta. Se lo Stato vuole debellare davvero questo fenomeno ha gli strumenti per farlo, ad esempio utilizzando telecamere nascoste o i droni nei campi, ma non basta una legge. La norma è necessaria ma non sufficiente per sconfiggere questa piaga sociale di cui fanno parte le nuove schiavitù.
Cosa si aspetta dal processo che riguarda la morte di Paola?
Il processo si aprirà in autunno e mi aspetto verità e giustizia. E faccio appello alla Regione Puglia e alle istituzioni affinché si costituiscano parte civile. Sarebbe un gesto di speranza per questa terra. Anche perché la mia battaglia non è una questione personale o familiare. Bisogna fare quadrato per salvaguardare tutti i lavoratori più esposti e fragili, per applicare la nostra Costituzione, per mettere in sicurezza non solo il settore agricolo, ma tutto il mondo del lavoro. Lo sfruttamento c’è dappertutto. Mia moglie poteva salvarsi. Ci sono stati ritardi inaccettabili anche nei soccorsi. Non si sentiva bene già durante il viaggio in corriera. E quando mentre lavorava ha cominciato ad accusare i primi sintomi del malore, anziché chiamare subito il 118, o quantomeno i familiari, il caporale le ha semplicemente detto di sedersi su una cassetta.
La morte del ragazzo di 27 anni, vittima del caldo e della fatica, ha riaperto una grande ferita.
Sì. È stato un colpo al cuore, ho rivissuto sensazioni tremende. Fa male che certe morti continuino ad avvenire. Viviamo in una società che è progredita tantissimo sotto l’aspetto tecnologico, ma non sotto l’aspetto umano. Anche il Vangelo ci lascia un messaggio di uguaglianza e di fraternità, eppure c’è una società che guarda solo ai profitti, agli interessi, ai soldi. Le persone non sembrano più una priorità ma solo una subordinata.
E il caporalato?
Va a gonfie vele. Basta svegliarsi prima delle tre di notte e fare un giro per alcuni paesi della provincia di Brindisi e di Taranto per scorgere il viavai dello sfruttamento tra corriere e pulmini che trasportano lavoratori stranieri ma anche tantissimi italiani, uomini e donne, padri e madri di famiglia.
E i controlli?
Servono nella realtà, non solo sulla carta. Bisogna capire quante ore si lavora e quante davvero verranno retribuite. I contratti hanno la loro facciata di regolarità. A mia moglie, a fronte di 30 giornate effettive, ne risultavano soltanto 15, la metà. Paola è morta per una paga reale di 27 euro per ogni giornata di fatica, poco più di 2 euro all’ora. Peraltro, molti hanno paura. E se dicono qualcosa di diverso rischiano di non lavorare più. Mia moglie non si presentò un giorno perché stava male. La lasciarono a casa, per punizione, per due settimane. Dunque: o stati zitto e accetti quello che ti danno, oppure c’è un’altra persona in difficoltà pronta ad accettare quel lavoro per portare il pane a casa.