Attualità

I POPOLI DELLE ALPI/1. Non si vive di solo folklore nella valle dei Mocheni

Diego Anreatta venerdì 10 agosto 2012
«Guetkemen in Mochentol». Il «benvenuto in val dei Mocheni», rivolto ai mille partecipanti alla camminata enogastronomica Bernstol ring che si svolge ogni anno in una domenica d’inverno, è il saluto con cui i residenti mòcheni rinnovano l’impegno a spalancare le porte della loro valletta alpina per secoli considerata impenetrabile. Nel lessico germanofono di questa minoranza trentina (parlato da 1.660 valligiani secondo il censimento 2011; erano 2.250 dieci anni fa!) quel ring significa giro della val dei Mocheni, occasione per mettere kappaò gli stereotipi sull’arretratezza della valle. Fin dall’avvio delle dieci tappe attraverso i tre Comuni di Frassilongo, Palù del Fersina e Fierozzo i turisti possono apprezzare il gusto della treccia mòchena, le altre prelibatezze fritte, come gli straboi, e i mirtilli neri. Molti trentini e veneti scoprono così che a un quarto d’ora d’auto da Pergine Valsugana ci s’immerge d’incanto in un’atmosfera serena e laboriosa: mochen, secondo il codice linguistico dei contadini tedeschi scesi qui a lavorare nelle miniere alla fine del 1300, deriva da machen, fare. Oggi è ancora una password d’identità condivisa, una matrice culturale viva, plasmata da un forte spirito di appartenenza religiosa. Basti dire che i 250 volontari della valle impegnati nella domenica del Bernstol erano alla Messa delle otto anche se il termometro segnava dieci gradi sotto zero. «Negli ultimi vent’anni si va recuperando un sano orgoglio mòcheno, una convinta partecipazione ai momenti comunitari. Una fede molto radicata: ci sono famiglie che ogni sera recitano il rosario nelle case», osserva con ammirazione il giovane don Daniele Laghi che da due anni guida le sette parrocchie, entusiasta delle nuove prospettive di sviluppo. In che direzione? Abbattere il pregiudizio che sia un’enclave, in perenne ritardo sui tempi. È così dagli anni Venti o Trenta quando la terra non dava a sufficienza da vivere e i capifamiglia dovevano girare l’Europa con le cassette di ambulanti: oggi ci sono ancora 15 clomeri, ma viaggiano in furgone.L’agricoltura di qualità e un turismo dolce, attento a valorizzare la singolarità etnica, possono garantire un futuro. Se i pascoli alti - come dappertutto - perdono metri a favore del bosco, qualche bell’ettaro si va recuperando con la coltivazione dei frutti di bosco conferiti alla cooperativa Sant’Orsola: 250 dipendenti: «Il fatturato è in crescita anche grazie alle aziende gemelle che abbiamo sostenuto nella Locride - dice il direttore, Michele Scrinzi - e quest’anno abbiamo realizzato un percorso ciclopedonale di dieci chilometri fra i frutteti, apprezzato anche dalla carovana dell’ultimo Giro del Trentino». Pure l’arcivescovo di Trento, Luigi Bressan, invitato da una famiglia che coltiva fragole e lamponi, ha osservato che «la produzione dei piccoli frutti è un’attività rivelatasi fondamentale per favorire la permanenza degli abitanti in Valle».Altri due progetti sono la valorizzazione delle malghe, ristrutturate come agritur sul modello altoatesino, e la riapertura delle Terme di Sant’Orsola: spazi di benessere e di quiete cari anche allo scrittore austriaco Robert Musil. Molti mòcheni, intanto, sono tornati: i diciottenni sono orgogliosi di indossare il kronz, il colorato cappello dei coscritti, e di animare i «cantori della stella» che all’Epifania portano di maso in maso le nenie tradizionali. A metà gennaio, arriva la festa di Romedio, il santo importato dai clomeri: e mentre le donne mettono a lievitare la pasta che degli stopfen, si riempie per la Messa la chiesa di Roveda sul cui portale sta scritto: Ondenken wan Krumern wa oachleit, dai commercianti ambulanti di Roveda in ricordo. All’Istituto culturale mocheno il presidente Bruno Groff ha annunciato la stampa di un vocabolario e di una grammatica.