Parla il ministro Urso. «Auto, l’Ue garantisca gli interessi nazionali»
Il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso
Il ministro Adolfo Urso, titolare delle Imprese e del Made in Italy, è reduce da quello che la stessa premier Meloni ha definito «un successo »: il rinvio della decisione Ue sullo stop dal 2035 ai motori termici. E ora, davanti al tentativo di Ursula von der Leyen di riaprire il delicato dossier, chiede una « proposta organica» della Commissione Ue, che parta dalle istanze italiane.
I toni quasi trionfali usati sono giustificati?
Nessun trionfalismo, anzi. Ma la consapevolezza che l’Italia ha espresso un bisogno largamente condiviso in Europa, innanzitutto dai lavoratori europei e quindi dalle imprese - risponde il titolare delle Imprese e del Made in Italy -. Non dobbiamo aver timore di esprimerci perché siamo dalla parte della ragione, come i fatti dimostrano. Peraltro, è la prima volta che un regolamento di questa portata viene tolto dall’ordine del giorno dopo la conclusione del trilogo, per una nuova riflessione tra gli Stati. E il confronto avvenuto in Germania tra la presidente Von der Leyen e il cancelliere Scholz al ritiro annuale del governo tedesco lo dimostra. L’Italia conta, oggi più che mai, perché parla con la ragione e nell’interesse dell’Europa.
Appunto: domenica la presidente della Commissione Ue ha cercato in Germania di riavviare il dossier. Reputa che la pausa di riflessione vada invece prolungata?
Ci attendiamo che la Commissione Europea faccia una proposta recependo le nostre indicazioni, che riguardano non solo questo dossier ma anche le modalità con cui si pensa di raggiungere l’autonomia strategica europea sugli ambiziosi obiettivi del Net-Zero sul green tech. È necessario un approc-cio complessivo più adeguato alla realtà, pragmatico e non ideologico anche sugli altri regolamenti che riguardano l’automotive: le emissioni di CO2 sui veicoli pesanti e soprattutto i tempi del passaggio all’Euro 7. L’elettrico non è una religione, ma una tecnologia: non l’unica, anche se la più importante nella transizione green.
La dilazione rischia di ripercuotersi su scelte necessarie per la tutela del clima. Non arriveremo impreparati al futuro che ci attende?
Appunto chiediamo che la Commissione si esprima ora, in questa fase, senza ambiguità, anche su come affronteremo la clausola di revisione del 2026, su una visione di effettiva neutralità tecnologica e quindi sull’uso del biocombustibile anche dopo il 2035. Per questo ci siamo mossi. Dobbiamo dare sin d’ora alle imprese un quadro certo, per indirizzare al meglio gli investimenti.
Cosa sta facendo l’Italia per attrezzarsi, oltre che su biofuel e idrogeno, pure sull’elettrico?
Abbiamo già stanziato 4,4 miliardi di euro per lo sviluppo dell’idrogeno, la produzione di biometano, la filiera delle batterie e per l’installazione di oltre 20mila infrastrutture di ricarica. Un ulteriore miliardo è destinato ad aumentare la resilienza delle reti di distribuzione, mentre 2 miliardi per sostenere la domanda di auto a basse emissioni. Nella dichiarazione sottoscritta venerdì scorso con il ministro francese Le Maire indichiamo inoltre la necessità di nuovi Ipcei (i progetti di comune interesse europeo, ndr) proprio su tecnologie green e idrogeno, oltre a una politica commerciale che ci tuteli dalla concorrenza sleale della Cina. Di fatto, dazi compensativi su prodotti realizzati in spregio agli standard sociali e ambientali che giustamente richiediamo alle nostre imprese.
Cosa teme di più dell’azione economica della Cina?
La sua supremazia nella tecnologia green e nelle materie prime critiche, fondamentali per la duplice transizione. Non possiamo passare dalla subordinazione alla Russia per le fonti fossili a quella verso la Cina, tanto più perché Pechino aspira a diventare la superpotenza globale. Noi dobbiamo garantire l’autonomia strategica europea soprattutto sulle nuove frontiere tecnologiche.
Cosa rappresenta la dichiarazione in 17 punti sottoscritta nei giorni scorsi con la Francia?
La precisa volontà di costruire una politica industriale europea che rappresenti appieno i nostri interessi nazionali. Abbiamo dimostrato che siamo in condizioni di trovare linee comuni con Parigi, faremo altrettanto con Berlino. Le tre grandi nazioni industriali Ue insieme per riaffermare la volontà di fare dell’Europa il polo tecnologico globale, non solo un polo museale. Unite, le loro imprese valgono il 55% del Pil europeo, la terza manifattura mondiale dopo Usa e Cina.
Da dossier come l’ex Ilva, Ita e la rete di Tim passa parte della modernizzazione del Paese. Qual è la visione che ispira il ministero?
Quella di uno Stato stratega che si assume la responsabilità di indicare la rotta. Poi le imprese agiranno secondo le regole di mercato.
Quali soluzioni porterà al tavolo di crisi per l'impianto metallurgico di Portovesme?
È iniziato il confronto nel tavolo presieduto dal sottosegretario Bergamotto, con tutti gli attori. Siamo impegnati alla ricerca di una soluzione industriale come abbiamo già fatto con Lukoil, Prysmian e in Sardegna con SiderAlloys. Non sarà facile, ma noi non molliamo.
Il nodo dei bonus edilizi era chiaro dall’inizio. Non si è perso tempo per affrontarlo?
Era chiaro anche a Draghi, che più volte aveva denunciato gli effetti perversi sui conti dello Stato. Noi siamo intervenuti prima rivedendo al ribasso il 110% e poi eliminando la possibilità di un corto circuito nella cessione dei crediti ad altre amministrazioni. Erano atti dovuti, nell’interesse generale. Anche le imprese del settore lo hanno compreso e con loro ci stiamo confrontando per trovare soluzioni.
Cosa ne pensa della settimana lavorativa di 4 giorni?
È un argomento di contrattazione tra le parti. Penso soprattutto a quella aziendale, anche perché riguarda le grandi imprese, ben sapendo tra l’altro che nel nostro Paese abbiamo un problema di produttività generale, insieme a quello dei bassi salari, con un divario occupazionale tra Nord e Sud che dobbiamo assolutamente affrontare.
Dopo 5 mesi di governo, vede sufficiente coesione, al di là dei contrasti episodici?
Tutti i provvedimenti sono stati approvati dal Consiglio dei ministri all’unanimità. Quanta differenza con quanto succedeva nei governi Conte, quando si approvavano i decreti “salvo intese”. E quanta differenza con quelli del governo Draghi, talvolta approvati con manifesto dissenso e dopo strappi e tensioni: basti pensare alle misure di contrasto al Covid o all’uso del contante, fino al pressing del M5S sull’Ucraina che costrinse il premier al rientro anticipato dal delicato vertice Nato di Madrid. È cambiato il clima perché questo è un governo politico espressione del voto, con una programma condiviso. E con una leadership consacrata dagli elettori.