Suicidio assistito. Tempi certi per morire, non per le cure. Paradosso Emilia Romagna
Una delle manifestazioni radicali a favore del suicidio assistito con lo slogan: «Liberi subito»
Era proprio necessario? Non sono altre le priorità per i diritti dei cittadini alla salute e alle cure? Si può inviare alle categorie più fragili un messaggio che parla di accoglienza, cura, relazione e non di morte? Sono tante le domande che si intrecciano in queste ore tra chi si occupa della dignità della vita umana in Emilia Romagna. Il provvedimento amministrativo col quale la giunta Bonaccini ha deciso di affrontare il tema delle scelte di fine vita suscita più di una riserva. «Accelerazioni normative sono forse motivate da un insufficiente risultato della diffusione di cure palliative sul territorio? – si chiede un medico che in regione è a contatto quotidiano con questo tema come Marco Maltoni –. La realtà purtroppo dice che la diffusione delle cure palliative ha dei punti di criticità impressionanti e drammatici ». I dubbi di Maltoni, coordinatore della Rete cure palliative Ausl Romagna, si fanno insormontabili, dati alla mano: «Se il Decreto ministeriale 77 sulla organizzazione della sanità territoriale dice che ogni 100mila abitanti deve esserci una Unità di Cure palliative domiciliari (Ucpd), in quale regione questo standard è rispettato? In nessuna. E questa (teorica) Ucpd, da quanti medici e infermieri specialisti in cure palliative deve essere costituita? Non ci sono indicazioni. Gli standard della Società italiana Cure palliative prevedono due medici di cure palliative in ogni hospice con 10 posti letto e un medico di cure palliative a fare le consulenze in ogni ospedale di 250 posti letto. In quale regione questi standard sono rispettati? In nessuna». Non solo: «Il progetto nazionale di potenziamento delle cure palliative prevede un raggiungimento di un obiettivo di assistenza al 90% degli aventi bisogno nel 2028, equivalente a 335 malati ogni 100mila abitanti. Ciò verosimilmente significherebbe circa 5 medici palliativisti ogni 100mila abitanti, con un numero di infermieri dedicati circa tre o quattro volte quello dei medici. Quale regione sta tendendo a questi standard? Quale è consapevole della profonda criticità e distanza in cui versa? Nessuna». Conseguenza: «C’è il rischio fondato che i Livelli essenziali di assistenza che prevedono in teoria la diffusione delle cure palliative non ne vedano l’applicazione reale, mentre altri percorsi di fine vita hanno spinte molto forti. Ma come potranno pazienti con grande sofferenza, e con una autodeterminazione condizionata dalle criticità e incompiutezze delle reti di protezione, “scegliere” liberamente?».
Domande in cerca di una risposta credibile. Che viaggiano insieme a quelle sollevate da Chiara Mantovani, medico ferrarese, del direttivo nazionale di Scienza & Vita: «La regione Emilia Romagna – dice – ha fatto ben di più che una delibera regionale oltrepassando ogni dibattito serio e pluralistico sul fine vita: ha silenziosamente ma esecutivamente diramato linee guida per il territorio regionale (un percorso in 42 giorni, una velocità degna di ben differenti percorsi diagnostico-terapeutici) e insediato un comitato ad hoc - il “Comitato regionale per l’etica nella clinica”, o Corec – per l’esame di richieste espressamente definite per il suicidio assistito, con tanto di acronimo: Sma, suicidio medicalmente assistito. Inserire quella M – medicalmente – dovrebbe tranquillizzare, ma di fatto allarma. La medicina intesa come arte medica c’entra poco, c’entra molto invece la medicina intesa come farmacon, molecola chimica da utilizzare, con evidente richiamo ai veleni. Né la legge sulle Dat né la sentenza 242/2019 della Corte costituzionale legittimano l’istituto del suicidio assistito. Si parla di fine vita, di scelta terapeutica, di desistenza da trattamenti giudicati inadeguati e insostenibili, di relazione paziente-medico, mai di fare dei medici del Ssn degli esecutori di morte». Ecco perché «la tempistica scelta, quasi una scorciatoia, non trova ragione se non nell’escludere il confronto con prospettive giuridiche, mediche e antropologiche: non precisamente uno specchiato esempio di dialogo ».
Rilievi giuridici arrivano da Domenico Menorello, portavoce sui temi della vita umana delle associazioni che si riconoscono nel network “Ditelo sui tetti”: «Vedo una chiara illegittimità per eccesso di potere – ragiona il giurista, membro del Comitato nazionale per la Bioetica – : la delibera regionale dice di fondarsi sul parere del Comitato di Bioetica del 24 febbraio 2023, ma in verità assegna la competenza a comitati del tutto diversi da quelli indicati dal parere stesso. Affidare questa tipologia di valutazione a comitati costituiti su base regionale, anziché ai comitati etici territoriali (Cet) previsti dalla legge nazionale 3/2018 e indicati come competenti della stessa Corte costituzionale nella sentenza 242/19, introduce differenze applicative su base territoriale che non sono tollerabili, vista la necessità di assicurare unitarietà a livello nazionale sull’applicazione di questi principi (si pensi all’interpretazione del concetto di “trattamenti vitali”)».
Perplesso anche Fulvio De Nigris, direttore del Centro studi per la Ricerca sul coma “Gli amici di Luca” nella Casa dei Risvegli Luca De Nigris di Bologna: «Il tema del fine vita è divisivo, ma dovrebbe essere affrontato come parte finale di un percorso che deve prestare maggiore attenzione ai servizi, alla condivisione e ai percorsi di cura. Spesso le buone intenzioni cedono il passo allo scontro politico. È fondamentale coinvolgere professionisti sanitari e non, associazioni e terzo settore (mi sarebbe piaciuto fossero previsti nel Corec) per rappresentare il percorso clinico assistenziale e il patto di cura tra famiglie e aziende sanitarie».