Pensatori e politici di ogni epoca hanno descritto e commentato la guerra, ma nessuno ha potuto fare a meno di metterla in relazione al suo opposto: la pace o, quanto meno, la tregua. Nella storia dei popoli, prima o poi, il conflitto cessa. Nell’Italia degli ultimi 20 anni la guerra (di parole, di leggi, di carte bollate e purtroppo, in qualche caso, perfino di violenza fisica) si combatte attorno alla giustizia e il momento di tornare alla normalità è arrivato. Per la verità, era arrivato da un pezzo, ma ora ce n’è l’occasione. Mai prima d’ora, infatti, il partito di Berlusconi e quello avverso a Berlusconi (ci si perdoni la semplificazione, ma crediamo che renda sufficientemente bene l’idea) si erano trovati insieme, con propri uomini e donne, ad amministrare il Paese. E probabilmente solo un governo che sia portatore di entrambi i punti di vista è in condizioni di mettere mano a una riforma della giustizia che non sia un semplice palliativo. Tutto ciò, beninteso, vale indipendentemente dalle sorti processuali dell’ex-presidente del Consiglio e fondatore del Pdl che pure, come sempre, pesano maledettamente sulla scena politica nazionale. Ma deve essere chiaro che quando si parla di 'riforma della giustizia' si parla di lunghezza eccessiva dei processi, di punti di Pil bruciati a causa degli investitori stranieri (e ormai anche italiani) che fuggono per l’impossibilità di recuperare un credito, di valide alternative non giudiziarie alla risoluzione delle liti, di carceri che non garantiscono la dignità dei detenuti e di chi vi lavora, di certezza della pena, di rispetto per le vittime dei reati, di effettiva rieducazione e reinserimento sociale del condannato, di reali garanzie per chi è in attesa di giudizio... Si potrebbe proseguire, ahinoi, per molte e molte righe. Il concetto è, però, chiaro: i problemi del cittadino comune alle prese con una causa civile o con un processo penale non hanno niente a che vedere con la signorina Karima el Marough (Ruby) o con i bilanci di Mediaset Spa, né con la veemenza oratoria del pm di turno. Ha cercato di dimostrarlo, proprio con il sostegno delle due parti politiche concorrenti, l’esecutivo tecnico guidato da Mario Monti, portando a fatica al traguardo il decreto cosiddetto 'svuota-carceri', una contrastatissima legge anti-corruzione e la revisione della geografia di procure e tribunali. Il disegno di legge sulle pene alternative alla detenzione in carcere e sull’introduzione dell’istituto della 'messa alla prova' è stato invece affondato nell’ultimo giorno della scorsa legislatura, a un passo dall’approvazione definitiva. Non è molto, ma non è neppure poco, se si tiene conto che si tratta di un risultato ottenuto in 18 mesi, dopo quasi un ventennio di 'lodi' e di leggi ad o contra personam, cioè a favore o contro Silvio Berlusconi. Torniamo così all’occasione e alla sfida che si para davanti all’attuale governo che, se reggerà a spallate e maldipancia e se davvero volesse aggiustare la scoppiettante e sbuffante macchina giudiziaria nazionale, potrebbe fare assai di più di quello che l’ha preceduto. Nessuno, infatti, si sognerebbe di accusare il presidente del Consiglio Enrico Letta e i suoi colleghi del Pd di 'spingere' leggi che possano in qualche modo favorire il Cavaliere. Né si potrebbe pensare che il vicepremier e ministro dell’Interno Angelino Alfano, con i colleghi del Pdl, possano in qualche modo danneggiare il loro leader indiscusso. Se una vera riforma ci sarà, passerà in mezzo a questi due argini e, finalmente, al di sopra di ogni sospetto. Sembra un sogno. E forse lo è. Perché la strada, che sulla carta sarebbe segnata, è lastricata d’insidie. Non a caso il premier Letta, ieri, ha definito quella della giustizia una riforma «a gittata più lunga» rispetto alle quattro individuate come prioritarie nel 'ritiro' di Sarteano. Tuttavia con la giusta volontà politica, stavolta, si potrebbe prendere la mira e fare centro. Vale la pena di tentare.