Attualità

Università. Un tarlo sta rovinando la ricerca: si chiama “pubblica o muori”

Federica Napolitani e Enrico Alleva sabato 15 gennaio 2022

Si sta affermando sempre più una strategia politica attenta ai costi e desiderosa di sottoporre a un’intraducibile accountability, un “rendere conto” del proprio operato professionale, il mondo dell'università e della ricerca, con un progressivo accanimento nel misurare i più tipici prodotti della attività scientifica: le pubblicazioni, prova provata prima cartacea e poi digitalizzata del lavoro eseguito e, per tanto, misurabile.

Il publish or perish (pubblica o muori), slogan ormai popolare tra i ricercatori statunitensi, è così diventato una realtà anche in Europa. Soprattutto per i più giovani, produrre messi di pubblicazioni è divenuto inderogabile. La conta e la valutazione delle pubblicazioni dei singoli ricercatori, la competizione tra gruppi di lavoro, dipartimenti o interi istituti, quando non università o enti, si è fatta ogni giorno più stringente. Nel 2006 sorge presso il Ministero per l’Università e la Ricerca, l’Agenzia Nazionale per la Valutazione dell’Università e la Ricerca (ANVUR), sulla cui evoluzione (tra luci e ombre) i Lincei hanno promosso una riflessione importante negli scorsi mesi.

È nato in questo contesto anche l'Impact Factor, che misura l'impatto (a suon di citazioni bibliografiche) di una rivista scientifica, corretto oggi nel più gettonato indice di Hirsch, che misura invece l'impatto “ (letteralmente) “autorevole” del singolo autore e delle sue pubblicazioni nella comunità scientifica, basato sul numero di articoli pubblicati e il numero di citazioni di tali articoli da parte di altri studiosi.

Nel 1994 l'Università di Tor Vergata ha attribuito la laurea honoris causa in Medicina al linguista e imprenditore Eugene Garfield, cui va il merito, non da tutti però riconosciuto viste alcune attuali degenerazioni, di aver introdotto i cartacei Current Contents prima e il Web of Science poi, il quale, disponibile a pagamento, oggi rappresenta spesso per valutazioni, concorsi e premi nazionali il principale riferimento "meritocratico" del peso culturale delle pubblicazioni degli studiosi da valutare.

Su questo impianto e su quello fiorito attorno al movimento dell'open access (nato nel lontano 2001 per promuovere il libero accesso ai dati della ricerca, saggiamente considerati “bene comune”, come le pubblicazioni disponibili senza obbligo di pagamento alla rivista), si sono oggi inseriti i cosiddetti "predatory journals", cui riviste scientifiche del calibro di Nature stanno dedicando sempre più attenzione. Sono un fenomeno nuovo e molto pericoloso, in quanto manifesta la degenerazione di un sistema che di una sciocca, crudele e spiccia “meritocrazia della pubblicazione” ha fatto prima un vanto e poi una vera attività truffaldina a scopo di lucro. Si tratta di riviste che pubblicano a pagamento articoli scientifici senza alcuna, o con scarsissima valutazione della loro validità e bontà. Promettono pubblicazioni facili, numerose, e rapide, e grazie alla viralità della rete si stanno trasformando in un dannoso fenomeno esplosivo.

Che fare? Già si cominciano a diffondere “liste nere”, che indicano quali sono le “riviste-truffa” da cui guardarsi. Ma ogni giorno ne spuntano di nuove e furbescamente allettanti, oltre al proliferare di riviste solo mezze-truffaldine. Innanzitutto, e già alcune istituzioni si sono attivate, va spiegato con accuratezza e costanza ai giovani che si avvicinano al mestiere di ricercatore o docente quali siano queste trappole intese a spillare quattrini e che purtroppo in forma crescente inquinano e distorcono le giustificabili necessità di valutare le pubblicazioni, quegli scritti che rappresentano da secoli le principali credenziali curriculari e costruiscono l’autorevolezza di chi le firma. Si tratta di un'azione urgente, ne va del funzionamento complessivo del sistema della ricerca e dell'università.